lunedì 15 ottobre 2012

LETTERA APERTA ALLE AUTORITA’ ECCLESIASTICHE: ESIGERE I TRIBUTI SEGUENDO SAN TOMMASO O MAMMONA?

Vorrei soffermarmi sulle recenti affermazioni di alcuni alti, prestigiosi e colti prelati, il cardinal Bagnasco presidente della CEI, mons.Caffarra arcivescovo di Bologna e mons.Mazzoccato, arcivescovo di Udine, sul tema del pagamento dei tributi allo Stato. Ha affermato il primo che chi evade commette peccato, ha detto il secondo che pagare le tasse è un obbligo morale e ha tuonato il terzo che “l’evasione fiscale è un furto” giungendo a proclamare che “chi non versa le tasse si trattiene qualcosa che in realtà non è suo”. Ma è così, secondo la millenaria e consolidata dottrina cattolica? San Tommaso distingueva tre ordini di giustizia, quella legale - o generale - quella commutativa e quella distributiva. La prima è quella che orienta gli uomini al bene comune, è dettata dall’autorità e consiste nel dovere di sottomissione alle sue leggi. La giustizia commutativa è quella che si deve realizzare nei rapporti personali, ossia quando avviene uno scambio deve realizzarsi una giusta proporzione tra le due prestazioni in modo tale che nessuno dei contraenti ne riceva danno. Nella giustizia distributiva prevale un aspetto sociale, ossia la distribuzione dei beni comuni che deve raggiungere tutti i componenti della comunità, ma non necessariamente in maniera uguale bensì proporzionata non solo alle esigenze ma anche ai meriti, all’onore e allo status delle persone. Ciò detto sorge la necessità di differenziare, giuridicamente, il concetto di tassa da quello di imposta. La prima è ciò che lo Stato richiede come corrispettivo di una sua prestazione; se vuoi un certificato lo paghi, se vuoi un servizio corrispondi allo Stato l’ammontare del costo. Qui viene in evidente considerazione la giustizia commutativa; poco importa che uno dei soggetti sia lo Stato, perché prevale l’aspetto del rapporto di scambio e conseguentemente sorge la necessità di una giusta proporzione tra il dato e l’avuto. La seconda invece, come il nome suggerisce, rappresenta un contributo coattivo prelevato dalle attività economiche e dal lavoro per assicurare un’entrata economica al bilancio dello Stato e una copertura finanziaria dei servizi pubblici. L’ imposta non è connessa a una specifica prestazione da parte dello Stato o degli enti pubblici e la sua base imponibile è la ricchezza su cui viene applicato il prelievo. L’istituto dell’imposta si collega dunque sia al concetto di giustizia distributiva sia a quello di giustizia legale e non deve violare i principi di quella commutativa; è giusto e doveroso che ognuno conferisca alla società, per i bisogni collettivi, una quota dei propri beni in proporzione alle sue capacità – ma va sottolineato che la dottrina cattolica respinge decisamente una concezione, quale sembra emergere dalle parole di mons.Mazzoccato, socializzata e statalista della proprietà privata che, caso mai, deve essere orientata a scopi sociali - ma l’autorità civile deve usare i beni messi in comunione attraverso una equa distribuzione tra i membri della società e un utilizzo conforme alla giustizia e alle necessità fondamentali dello Stato. Mons. De Paolis, già Segretario del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e oggi cardinale Delegato Pontificio per la Congregazione dei Legionari di Cristo e già Presidente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede affermava: “il Legislatore ha il diritto di imporre le tasse, il cittadino ha il dovere di pagarle, ma il governo deve usare bene quei soldi: se li usa male o se la tassazione è eccessiva, viene a mancare il presupposto”. Chi ha ragione, allora, Mons.Bagnasco o Mons. De Paolis? Seguendo il ragionamento del secondo - e della dottrina tradizionale - il diritto dello Stato all’imposizione fiscale non si pone come assoluto ma relativo, ossia deve obbedire ad un ordine morale oggettivo e quindi il dovere fiscale dei cittadini è condizionato dall’essere l’imposta “giusta” – ossia finalizzata al bene comune – e “non eccessiva”. Vediamo allora come funzionano tasse, imposte e quali destinazioni sono riservate al danaro prelevato. Se ci soffermiamo ad esaminarne qualcuna tra le decine in vigore, ci piace ricordare la tassa sui cani, sull’autovettura, quella sui gradini che s’affacciano sul marciapiede e sull’ombra proiettata da un balcone o da una sporgenza sul suolo pubblico o, ancora, quella sui passi carrai; qual è la controprestazione che lo Stato offre a chi possiede autovetture, cani, gradini, proietta ombre e vuole uscire di casa senza usare l’elicottero? In che cosa consiste il beneficio somministrato dall’ente pubblico? Nel non murare il nostro cancello? Nel non mandarci a casa l’accalappiacani? Nel non abbattere a cannonate gradini e balconi? Nel non sgonfiarci le ruote dell’auto tutte le volte che la usiamo e la parcheggiamo? Nel non notificarci a casa la cartella esattoriale se chiniamo la testa e paghiamo? E queste solo per ricordare le più ridicole e vessatorie. Ci troviamo evidentemente di fronte ad una totale carenza di giustificazione sotto il profilo del principio commutativo; nessun beneficio, in questi casi paradigmatici e in decine di altri, sussiste per chi paga il tributo che, gabellato come “tassa”, in realtà è un vero e proprio balzello senza un pur minimo fondamento sinallagmatico che lo giustifichi. Le imposte, che colpiscono redditi, patrimoni e transazioni suscettibili di apprezzamento economico, la fanno però da padrone. E tra queste vorrei ricordare i tributi che gravano sulle transazioni: l’imposta di registro che colpisce spostamenti di ricchezza che però non significano necessariamente un aumento del proprio patrimonio; chi compra una casa non se la vede regalare dal vecchio proprietario ma deve pagarla e la acquista con danaro che, frutto di risparmio, non è che il residuo di un capitale già colpito da imposta e che quindi ha già “assolto” ad una pretesa ed ipotetica funzione di giustizia legale e distributiva. Chi, in forza d’una sentenza, si vede riconoscere il diritto alla restituzione d’una somma dovuta e su cui, privato o impresa , già deve pagare o magari già ha corrisposto l’imposta sul reddito, perchè deve versare allo Stato un’ulteriore percentuale come imposta di registro? Perché questa duplicazione ingiusta e vessatoria? E come giustificare gli altissimi tassi che gravano sugli stipendi e sulle entrate dei cittadini? Le imprese, secondo una recente analisi, sono colpite da un’imposizione che complessivamente supera il 60% del reddito prodotto. E i lavoratori, autonomi e dipendenti, che sopportano il peso dell’imposta indiretta sui propri consumi, pagati con danaro già colpito dal prelievo che grava sul reddito, vedono i loro guadagni più che dimezzati. E, ancora, come giustificare la tassa sulla proprietà della prima casa, acquistata con danaro già gravato dalle imposte sui redditi e dalla successiva corresponsione dell’imposta di registro? Facile rispondere che “lo Stato ha bisogno di soldi”. Perchè a questa pretesa giustificazione morale (di morale laica e dunque ben poco oggettiva ) si può contrapporre quanto già sottolineato ossia che, secondo la dottrina tradizionale della Chiesa, non esiste il diritto assoluto alla pretesa dell’imposta ma solo un diritto che può trovare giustificazione nella sua non eccessività e, inoltre, nella necessità per l’Autorità dello stato di realizzare il bene comune; in questo ampio concetto possiamo tranquillamente ammettere il raggiungimento di una migliore distribuzione del reddito attraverso la concessione di benefici sociali alle fasce più svantaggiate della popolazione e il mantenimento di quella complessa macchina amministrativa che serve(recte, dovrebbe servire) a far funzionare sanità, giustizia, scuola, polizia ed altre funzioni che si assumono di stretta competenza dello Stato; ma sempre a condizione che queste funzioni siano assolte senza sciali, clientele, corruttele e per scopi conformi al diritto naturale. Il prestigioso giurista cattolico Carlo Francesco D’Agostino affermava che “lo Stato che ci metta le mani sopra (la proprietà privata), all’infuori di quello che sia la giusta corresponsione dei servizi che rende - e dei soli servigi indispensabili al bene comune - è semplicemente un ladro ed un violento” Ed allora, anche a voler benignamente sorvolare su come quelle funzioni siano concretamente realizzate e quelle condizioni concretamente rispettate, va osservato che è ormai fatto notorio che il debito pubblico in Italia comprende vere e proprie voci di spesa , sempre crescenti, che non trovano alcuna legittimazione etica e/o esulano dai compiti primari dello Stato e comprendono regalie e benefici concessi alle caste parlamentari e politiche, mantenimento d’una burocrazia inutile e parassitaria, finanziamenti buttati nella partecipazione ad “operazioni di pace” che in realtà nascondono la complicità in veri e propri immorali ed indifendibili atti di guerra e d'invasione e altri innumerevoli sprechi che favoriscono le solite clientele. Lo Stato – lo “Stato Provvidenza” che ci viene presentato come portatore di benessere -ha invaso la nostra vita quotidiana e, come prezzo dell’invasione, getta come Brenno la propria spada sulla bilancia pretendendo che il peso del suo strumento di “occupazione” sociale, una burocrazia politica ed amministrativa che trova principalmente giustificazione solo in sé stessa, sia mantenuta dai sudditi dell’. Ma v’è di più; il debito pubblico è in gran parte conseguenza della svendita dello Stato della propria sovranità monetaria al sistema bancario. Lo Stato, emettendo titoli pubblici che consegna al sistema bancario che li riceve in contropartita del prestito di danaro che crea dal nulla, naturalmente s’indebita per il valore nominale corrispondente aumentato degl’interessi; alla scadenza lo Stato rimborsa il titolo al suo portatore che lo ha a sua volta acquistato dal sistema bancario che li ha venduti al pubblico; morale: il sistema bancario ha incassato, col costo tipografico delle banconote stampate, il rimborso del valore nominale dei titoli e l’ammontare degli interessi che lo Stato gli ha corrisposto drenando le necessarie risorse attraverso il sistema impositivo, in una spirale diabolica d’indebitamento e di strozzinaggio legalizzato. Può essere allora moralmente preteso, in nome d’una giustizia legale che implica il soddisfacimento dell’esigenza del “bene comune”, che il cittadino, a causa d’una scelta suicidaria dello Stato, retto evidentemente da insipienti, traditori e vili, s’impoverisca per alimentare l’arricchimento senza giustificazione logica ed etica del sistema bancario? O che si dissangui per permettere il perpetuarsi d’una ingente spesa burocratica che non trova alcuna legittimazione se non come strumento d’occupazione e di controllo? Dove sta la moralità, la giustificazione della finalità del bene comune? Dove sta il presupposto logico della pretesa fiscale dello Stato? Non è che gli alti prelati citati all’inizio confondano “Equità” con “Equitalia” ? Eppure la Chiesa , fino a poco tempo fa, non si sbagliava nell’indicare i propri nemici; quanto alla spesa burocratica Pio XII – papa Pacelli - affermava che “I bisogni finanziari di ogni nazione, grande o piccola, sono formidabilmente aumentati, per colpa, non solo delle tensioni o complicazioni internazionali, ma anche soprattutto, forse, della smisurata estensione dell’attività dello Stato; attività, la quale, dettata troppo spesso da ideologie false o malsane, fa della politica finanziaria, e in modo particolare della politica fiscale, uno strumento al servizio di preoccupazioni di ordine totalmente diverso. […] Ecco perché rivolgendosi a coloro che hanno qualche parte di responsabilità nel maneggio delle questioni di finanza pubblica, [la Chiesa] li scongiura: in nome della coscienza umana, non rovinate dall’alto la morale! Astenetevi da provvedimenti che […] urtano e feriscono nel popolo il sentimento del giusto e dell’ingiusto, o ne pospongono la forza vitale, la legittima ambizione di cogliere il frutto del proprio lavoro, la sollecitudine della famiglia; considerazioni queste, che meritano di occupare il primo posto, non l’ultimo, nella mente del legislatore” (PIO XII, Allocuzione ai membri del Congresso dell’Istituto Internazionale delle Finanze pubbliche, 2 ottobre 1948). E a proposito della concentrazione della proprietà del danaro così scriveva Pio XI – papa Ratti – nell’enciclica “Quadragesimo anno” del 1931: “E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento (…) Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare”. E nella medesima enciclica così si affermava in ordine ai rapporti tra Stato ed individuo: “La pubblica autorità però, come è evidente, non può usare arbitrariamente di tale suo diritto; poichè bisogna che rimanga sempre intatto e inviolato il diritto naturale di proprietà privata e di trasmissione ereditaria dei propri beni, diritto che lo Stato non può sopprimere, perché l'uomo é anteriore allo Stato (enc. Rerum novarum, n. 6), ed anche perché il domestico consorzio è logicamente e storicamente anteriore al civile (enc. Rerum novarum, n. l0). Perciò il sapientissimo Pontefice (Leone XIII) aveva già dichiarato non essere lecito allo Stato di aggravare tanto con imposte e tasse esorbitanti la proprietà privata da renderla quasi stremata. Poiché non derivando il diritto di proprietà privata da legge umana, ma da legge naturale, lo Stato non può annientarlo, ma semplicemente temperarne l'uso e armonizzarlo col bene comune (enc. Rerum novarum, n. 35)”; San Tommaso d’Aquino insegnava che «il regno non è per il re, ma il re è ordinato al buon governo». Ossia il fine dell’autorità civile è soltanto il bene comune dei cittadini. Oggi lo Stato invade arbitrariamente la vita dell’uomo, schiacciandolo sotto il peso di una burocrazia corpulenta, cercando di porre sotto il proprio controllo ogni aspetto della sua esistenza e facendogli pagare a caro prezzo questa sua intrusione; magicamente lo Stato invece scompare là dove una sua presenza potrebbe garantire un ordinato sviluppo economico e sociale, ossia nel campo monetario e creditizio in cui ha lasciato via libera alle forze sempre più incontrollate della speculazione finanziaria e dell’usura legalizzata; e qui il prezzo che si pretende far pagare al cittadino è ancora più salato. Deve pagarle allora lui le scelte sciagurate dello Stato, dettate da insipienza, viltà e tradimento? Diteci, dunque: dobbiamo ubbidire alla giustizia secondo San Tommaso o secondo Mammona?

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