lunedì 28 novembre 2011

LIBIA. PUNTO DELLA SITUAZIONE AL 25 NOVEMBRE

di Bernard Lugan dal sito www.realpolitik.tv
traduzione e diffusione autorizzate

In Libia la guerra dei clan si svolge ormai apertamente in Tripolitania dove cinque grandi forze sono presenti à Syrte, à Misurata, à Bani Walid, nello djebel Nefusa e a Zenten e a Tripoli :

- le tribù della regione della Syrte hanno cessato il combattimento schiacciati sotto le bombe della Nato ma hanno mantenuto la loro fedeltà. Ora che l'aviazione occidentale è tornata alle sue basi, alcune di loro sono pronte a riprendere la lotta contro il CNT.

- Le milizie di Misurata, quelle che catturarono e linciarono il colonnello Gheddafi, rifiutano ogni altra autorità che non sia quella dei loro capi. Tutte le componenti della Tripolitania le odiano, compresi gl'islamisti di Tripoli.
- A sud di Misurata, attorno a Bani Walid la frazione tripolitana della tribu dei Warfalla, ossia circa 500 000 membri, è sempre fedele al vecchio regime.

- Nella regione di Tripoli, i combattimenti tra le due milizie berbere dello djebel Nefusa e di Zenten da una parte e gli islamisti del Tripoli Military Council (TMC) dall'altra, hanno visto un'accelerazione negli ultimi giorni.

Un avvenimento di grandissima importanza s'è prodotto il 25 novembre con l’arresto all’aeroporto di Tripoli d’Abelhakim Belhaj, capo del TMC mentre, sotto falsa identità, tentava di prendere il volo per la Turchia. L’arresto da parte della brigata di Zenten di questo fondamentalista, vecchio combattente d’Afghanistan sostenuto dal Qatar, marca una svolta nell'evoluzione della situazione libica. Perché mai questa partenza rocambolesca ? Si sentiva minacciato e stava prendendo la fuga ? Si stava recando in missione segreta in Turchia? Questo arresto segna l'inizio del rifiuto dell'opprimente onnipresenza delle forze e degli agenti del Qatar, (numerosi libici domandandosi se il loro paese non sia divenuto una colonia di questo emirato ricchissimo ma sottopopolato e il cui esercito è composto da mercenari) ?
Abelhakim Belhaj è stato liberato su richiesta del presidente del CNT, Mustapha Abdel Jalil.

Lo sfondo del problema che gli osservatori una volta ancora non hanno visto, e che certuni una volta ancora riprenderanno, naturalmente senza citarmi e quando avranno letto il mio comunicato, è che i berberi hanno deciso di giocare la loro carta. Grandi perdenti – come avevo annunciato - della nuova situazione politica, essi si ritrovano in effetti, come prima della caduta del regime di Gheddafi , di fronte ad un nazionalismo arabo-musulmano che nega la loro esistenza. Nessun ministro del nuovo governo è berbero allorché le loro due brigate costituirono i soli elementi militarmente operativi della ribellione. Di fronte a questa situazione, il 25 novembre, la Conferenza Libica degli Amazighs (berberi) ha sospeso le sue relazioni con il CNT.
Militarmente, i berberi sembrano aver preso il controllo d'una parte della città di Tripoli, tra cui l'aeroporto. Altra chance, essi tengono loro prigioniero Seif al-Islam Gheddafi che hanno trattato con considerazione e anche rispetto. Un tale atteggiamento non è certamente del tutto spontaneo poiché contrasta coi trattamenti ignominiosi che i miliziani di Misurata fecero patire a suo padre e che numerosi libici hanno giurato di vendicare.
Se l'attuale governo non darà soddisfazione ai berberi, i quali costituiscono circa il 10% dei 6 milioni di Libici, un'alleanza rivolta al tempo stesso contro il CNT e contro Misurata e che comprenderebbe le loro milizie, la frazione tripolitana dei Warfalla così come le tribù della regione della Syrte, potrebbe essere costituita. E senza colpo ferire potrebbe impadronirsi della Tripolitania, soltanto Misurata essendo in grado di opporre una minima resistenza. Senza contare che al Sud, i tuareg e i toubou sono anch'essi restati fedeli alle loro passate alleanze.
Quanto alla Cirenaica, che é oggi sotto il controllo diretto degl'islamisti, essa è di fatto sfuggita alle autorità di Tripoli.

giovedì 17 novembre 2011

IL TALENTO DI MR.MONTI

Ecco a noi Mario Monti, annunciato salvatore d'Italia, mandato da quell'Europa "legale" - oltraggiata dall'annuncio del referendum greco, massima espressione della democrazia - covo di quella cricca di banchieri, politici, burocrati che vivono alle spalle dell'Europa "reale".
Ma è tutto oro quel che luccica?
Questo "grande economista", definito da "Le Monde" (14 novembre) "il prussiano d'Italia", nella realtà uomo-Trilateral e uomo-Goldman Sachs, ha ricoperto nell'Unione Europea il ruolo di Commissario, incaricato del Mercato interno e poi della Concorrenza.
E nello svolgere questa funzione egli ha dimostrato tutto il proprio zelo di ideologo liberale, fautore della concorrenza dura e pura.
Innanzitutto bloccando le dinamiche di fusione di grandi gruppi europei che, in questa era post-industriale e mondializzante, dovevano far fronte ad entità industriali multi o trans-nazionali sempre più potenti, sempre più concorrenziali, soprattutto con quelle del nord America che, rispetto a quelle europee, partono da una posizione di forte finanziarizzazione; è un dato di fatto che l'ottanta per cento delle imprese statunitensi si autofinanzia mentre la stessa percentuale d'imprese europee è costretta a ricorrere al credito(1).
Non prendiamoci in giro e guardiamo le cose colle lenti della cruda realtà: la sfida della mondializzazione non la si vince se l'Europa non si dota di strumenti atti a reggere il confronto, anche sul piano geopolitico, con una concorrenza mondiale tanto più spietata quanto irrispettosa delle regole del gioco; l'alternativa è il rilancio industriale dell'Europa, anche attraverso alleanze strategiche - e la sua sopravvivenza economica quale presupposto e motore di quella culturale - o la sua deindustrializzazione e la conseguente svendita a poteri finanziari-imprenditoriali transcontinentali che se ne spartiranno le spoglie facendola definitivamente uscire dalla Storia.
Il primo veto della commissione presieduta da Monti fulmina il tentativo di fusione delle americane General Electric-Honeywell: I successivi tentativi di bloccare le iniziative di fusioni europee Airtours-First Choice (compagnie di aviazione), Schneider-Legrand e Tetra Laval-Sidel e le sanzioni inflitte alla Volkswagen per abuso di posizione dominante in materia di prezzi di vendita del modello Passat vengono però cassati dalla Corte di Giustizia Europea che in prima istanza boccia le decisioni emanate dalla commissione.
La decisione che boccia il veto alla fusione dei gruppi d'apparecchiature elettriche Schneider e Legrand arriva però troppo tardi poichè la Legrand nel frattempo è stata già svenduta.
In questa decisione i giudici europei enumerano numerosi errori manifesti, omissioni e contraddizioni nell'analisi economica elaborata dalla commissione a sostegno del proprio rifiuto.
Nell' "affaire" Tetra Laval-Sidel il veto viene annullato essendo, secondo la Corte Europea, "l'analisi economica delle conseguenze a corto termine della fusione sulla concorrenza, insufficiente sotto il profilo degli elementi probanti e viziata da errori interpretativi".
Dei veri e propri schiaffi alla pretesa competenza del dr.Monti.
Ma a parte queste vere e proprie debacles, resta il fatto che il dogmatismo liberale della concorrenza assoluta ed astratta - che dunque deve colpire le posizioni "dominanti" potenzialmente monopolistiche, indipendentemente dall'interesse del consumatore alla qualità e al prezzo del prodotto - e la conseguente reputazione d' "integrità" che il neo-premier si guadagna nell'opporsi a giganti americani come Microsoft e a General Electrics nel suo tentativo di fusione con Honeywell o a denunciare aiuti sotterranei degli stati a imprese nazionali (vietati sempre a nome del principio della "concorrenza pura e non falsata"), sembrano però dissolversi di fronte alle molteplici e durature pratiche fraudolente di certi gruppi finanziari di Londra e di New York e, in particolare, quelle condotte dalle banche Rotschild e Goldman Sachs.
Qual è la direzione che i signori del danaro vogliono imporre al mondo? Quella voluta da interessi trans-nazionali in una "governance" mondiale capitanata dagli Stati Uniti: un mercato globale da lei diretto con un'Europa virtuale e disossata sottoposta al loro controllo; è la stessa strategia che nel dopoguerra vide la potenza americana esigere la decolonizzazione (in nome della santa democrazia) per favorire l'esportazione in Africa e nel terzo mondo di prodotti made in usa in sostituzione di quelli fabbricati in Europa.
Alla de-colonizzazione dell'Africa di allora oggi si sostituisce la de-nazionalizzazione dei poteri politici europei, commissariati dai burocrati culturalmente apolidi di Bruxelles e Mario Monti ne è il più lampante esempio.


(1) E, guarda caso, le regole di 'Basilea 3' impongono agli istituti bancari sempre più limitazioni per l'accesso al credito; chi detta le regole del gioco vince.

lunedì 7 novembre 2011

NON PAGARE IL DEBITO ALLE BANCHE.

La crisi finanziaria che investe l'Europa è, appunto, una crisi finanziaria, ossia legata alla circolazione del danaro, al rapporto debito/credito tra prestatori e debitori; il mondo non scarseggia di prodotti, di servizi, di beni ma di danaro, ossia del mezzo di scambio che serve a procurarseli.
Gli squilibri che oggi devastano la nostra tranquillità - familiare, imprenditoriale e dunque - sociale sono, in gran parte, il frutto di debiti contratti dagli stati per provvedere alle esigenze legate all'esercizio della propria sovranità: scuola, sicurezza, servizi sociali etc etc; una parte di questi debiti sono stati assunti nei confronti del circuito bancario; un'altra parte nei confronti di risparmiatori.
Non bisogna negare l'evidenza: una parte non trascurabile delle uscite dello stato italiano è puro spreco, clientela, inutile e greve burocrazia, assistenzialismo gabellato come spesa sociale.
E questo è un fatto; ma è pure un fatto che lo Stato ricorre al prestito ricevendo moneta creata dal nulla, nota questione che è inutile qui ricordare.
Ed allora, se i debiti verso i cittadini bisogna pagarli, quelli verso le banche no; qualificati come soggetti di pubblico interesse dalle leggi fasciste degli anni trenta, nella loro attività di raccolta del risparmio e di erogazione del credito e poi divenute, grazie a direttive europee degli anni settanta/ottanta, mere imprese con fini speculativi, gli istituti bancari hanno da venti/trent'anni a questa parte fatto i propri porci comodi e i propri sporchi interessi; hanno fatto quello che è stato loro concesso di fare, si potrebbe obiettare. Benissimo; ora però lo Stato faccia il suo, d'interesse, che è quello che la costituzione gli assegna o gli raccomanda, ossia controllare il credito e il risparmio (articolo 47 della costituzione) e nazionalizzare la fase d'emissione dell'euro (articolo 43 della costituzione: a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale).
Si dirà: ma i debiti vanno pagati; balle, lo Stato può fare quello che vuole: creare leggi, abrogarle, dichiarare guerre, cannoneggiare altri territori, perdonare i malfattori, svuotare le tasche dei propri cittadini e addirittura dichiarare inesigibili certi crediti; tutte cose che gli Stati hanno sempre fatto e continuano - e continueranno - a fare.
Qualche esempio? Recentissimamente l'Islanda e, nel 2008, l'Ecuador. Asfissiato dal rimborso di prestiti che rappresentavano il cinquanta per cento del proprio bilancio, l'allora presidente Raphael Correa rifiutò di pagare il 40% del debito dichiarandolo illegittimo, costringendo così i creditori a rinunciare a gran parte delle loro pretese.
L'Ecuador entrava così per la terza volta in 14 anni in default ma non come risultato di una decisione subìta ma di un legittimo - in quanto sovrano - atto politico.
Così s'espresse il presidente ecuadoregno: "Ho dato l'ordine di non pagare gli interessi. Il paese è dunque in default su questo debito coll'estero. Noi sappiamo ciò che andiamo ad affrontare, dei veri e propri mostri che non esiteranno nel tentare di schiacciare il paese ma io non potevo più permettere che si continuasse a pagare un debito immorale ed illegittimo. In quanto presidente della Repubblica me ne assumo tutta la responsabilità".
Il 12 dicembre 2008, nello stesso giorno in cui questo discorso era pronunciato, 30,6 milioni di dollari d'interessi su titoli rimborsabili nel 2012 non venivano pagati; la stessa sorte subivano i debiti per successivi interessi venuti a maturazione.
I crediti bancari contestati ammontavano a 3,8 miliardi di dollari, ossia quasi il 40% del debito pubblico coll'estero, pari a 9,9 miliardi di dollari rappresentati principalmente da buoni del Tesoro, oggetto di transazione sui mercati finanziari e in particolare su quello di Wall Street.
Davanti alla determinazione di quel governo sudamericano i detentori di quei titoli cominciarono a svenderli fino al 20% del loro valore; il governo ecuadoregno riuscì a comprarne il 91%, riscattando quindi il proprio debito ad un costo di 900 milioni di dollari, con un conseguente risparmio di circa 7 miliardi di dollari.
E da questo rifiuto di pagare il debito non è certo seguito il caos, visto che il tasso di crescita dell'Ecuador è pari al 3-4 %.
Restiamo in attesa che i governi europei - in particolare di Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e altri - si rendano conto che l'interesse dei popoli che governano è superiore a quello dei gruppi finanziari da cui sono taglieggiati da decenni e, dunque, facciano valere i rispettivi diritti con un atto di prepotente ma legittima sovranità.