lunedì 24 settembre 2012

IMMIGRAZIONE: LE RAGIONI DI UN NO.

LA C.D. “INTEGRAZIONE” La prima ed immediata considerazione che s’impone nell’affrontare la questione dell’immigrazione parte dalla constatazione che i suoi entusiasti partigiani utilizzano una parola, magica, che dovrebbe, come d’incanto, risolvere ogni dubbio, ricacciare ogni perplessità, vincere ogni contraria opinione: “Integrazione”; ossia divenire parte di un tutto, consolidarsi ed armonizzarsi in un insieme; immagine che naturalmente evoca uno scenario comunemente e obbiettivamente accettabile. Ma la realtà è molto più cocciuta dei sogni degli uomini. In Francia, Inghilterra e Germania, nazioni che ospitano (soprattutto le prime due, per motivi legati al loro passato coloniale) il più alto numero di immigrati d’origine extraeuropea e che per questo dovrebbero essere, in primis culturalmente, attrezzati ad ospitarli, importanti esponenti politici – di area sia conservatrice sia riformista – hanno riconosciuto il fallimento della società multi-razziale e la sostanziale inapplicabilità del modello “integrazionista”. Non solo per le evidenti percentuali che legano il fenomeno dell’immigrazione alla delinquenza o all’illegalità ma, non meno significativamente, per i comportamenti che le famiglie d’immigrati – e si parla naturalmente di quelle provenienti da culture e latitudini differenti – continuano a mantenere nei territori dell’Europa; diversi rispetto a quelli normalmente praticati dalle popolazioni locali, spesso incompatibili con questi, ed impermeabili a qualsiasi esigenza di adeguamento. L’osservazione del passato avrebbe già dovuto mettere in guardia gli apprendisti stregoni della società multirazziale; persino nei territori che aprirono le porte all’immigrazione per necessità di popolamento e sviluppo economico – paradigmatico l’esempio degli Stati Uniti tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento – e dove – mancando un ceppo originario di consolidate generazioni – avrebbe potuto germogliare uno spirito integrazionista, si produssero fenomeni di separazione etnica e nazionale: quartieri africani, indiani, latinoamericani, cinesi ed italiani furono lì a dimostrare che gli antichi romani avevano già capito tutto quando dicevano “pares cum paribus facillime congregantur”, ossia ognuno cerca di stare coi propri simili. E non è un caso, trattandosi di un fenomeno del tutto naturale, che anche gl’immigrati di seconda o terza generazione, diversamente da quanto pensavano o addirittura auspicavano i paladini del melting pot, tendano a creare il nucleo familiare con persone della stessa provenienza etnica. E’ sotto gli occhi di tutti, dunque, che il fenomeno migratorio sta producendo una spaccatura nelle società europee che si manifesta apertamente come vera e propria ghettizzazione razziale. Nonostante il contatto colla realtà occidentale, gli immigrati continuano a vivere nella loro, fatta di abitudini e stili di vita completamente diversi e, caso mai, se spaccature si creano nel loro mondo, queste discendono dalla volontà di qualche esponente di nuova generazione di voler adottare o scimmiottare i peggiori esempi del modello occidentale. La coesistenza di questi mondi distinti crea disagio e sensazione di sradicamento ed è proprio in queste ragioni che s’innestano i sempre più frequenti episodi di violenza collettiva degli immigrati di seconda e terza generazione nei quartieri popolari francesi e inglesi – per non parlare dei quotidiani esempi di teppismo individuale e collettivo in ogni città che ospita comunità afro-asiatiche; questi “nuovi europei” sanno di non far/poter far parte del mondo in cui sono stati proiettati, vorrebbero magari condividerne gli aspetti più deteriori – a partire dalla sfera consumistica e sessuale - ma la loro esclusione/autoesclusione sociale, conseguenza di fattori ineludibili, tra cui la loro stessa cultura, glielo impedisce, scatenando così rancore, frustrazione e risentimento verso la società che li ospita. MODELLI CULTURALI. Appare difficile, oggi come oggi, individuare qualche aspetto positivo della società europea e/o occidentale; mettendoci di buona lena a rimuovere gli strati di fango che hanno coperto le nostre torri, i nostri antichi palazzi e le nostre cattedrali potremmo rinvenire, nell’eredità alla quale sembra abbiamo rinunciato (ma che resta intatta nel nostro spirito e che prima o poi riemergerà smaltiti i fumi delle sbornie intellettuali ed ideologiche), il culto della bellezza e dell’armonia come proiezione della virtù e della pulizia interiore, una certa idea di libertà, intesa non come diritto assoluto ma in quella forma che i romani seppero forgiare ossia un giusto ed equilibrato rapporto dell’individuo con l’autorità per l’interesse superiore della patria e, last but non least, la presenza e la rilevanza dell’elemento femminile. E’ proprio tale ultimo aspetto forse quello che più caratterizza lo “spirito” dell’Europa e lo distingue in maniera evidente da altre realtà storico-civilizzazionali; e a partire dai suoi miti fondatori: l’Iliade e l’Odissea, vere e proprie bibbie della nostra civiltà, vedono tra i principali protagonisti proprio delle donne, descritte secondo le variegate sfaccettature della femminilità: la cinica ed appassionata Elena, la dolce e disperata Andromaca, la paziente e fedele Penelope. E la presenza della donna percorre tutti i secoli e le vicende delle civiltà europee: Grecia, Roma, il medioevo, come dimostrano le arti figurative e la letteratura, la vedono protagonista della vita sociale e degli stessi avvenimenti storici, con un ruolo differente rispetto al suo naturale interlocutore – secondo i modelli di una società organica, dunque ordinata – ma non per questo meno rilevante. Ben diverso rispetto a quei modelli familiari e sociali dove la donna – se non addirittura mero strumento riproduttivo o di piacere – è posta in una condizione di avvilente subordinazione rispetto all’uomo. E’ difficile dunque immaginarsi che la “integrazione” - intesa anche come “scambio culturale” - di popolazioni che adottano simili modelli possa apportare un’iniezione di positiva novità nel nostro già devastato sistema sociale. E il giudizio prognostico appare ugualmente infausto se esaminiamo il grado di libertà, di equilibrio sociale, di tradizioni civili che la storia dell’Africa e del subcontinente asiatico hanno prodotto. Basti pensare allo schiavismo che, grazie all’islam e alle lotte tribali, ha flagellato il continente nero dal settimo secolo dopo Cristo fino all’inizio del 1900 (e che, tutti dimenticano, fu proibito dagli stati coloniali nei territori conquistati)! E che ancora adesso continua a manifestarsi in maniera velata in Arabia e nei paesi del golfo persico dove società puritane ma moralmente corrotte sfruttano in maniera indecente immigrati che provengono dal quarto mondo. Gli sventurati, originari di paesi colpiti da secoli di sciagure e violenze, che sbarcano sulle spiagge europee sono l’espressione e portano con sé i germi di quelle storie e di quelle culture; e solo chi è in mala fede o, peggio ancora, sciocco può pensare che essi siano in grado di trasmetterci qualcosa di utile. Un paragone è d’obbligo: caduto l’impero romano, i barbari che da tempo s’erano installati nei suoi territori (e la cui presenza ne aveva accelerato la fine) non pensarono di introdurvi altri ordinamenti ma, al contrario, accettarono la legge romana e il cristianesimo riconoscendone la superiorità; il primo re d’Italia, il barbaro Odoacre, si fece garante di quella volontà di continuità inviando le insegne imperiali di Roma all’imperatore d’Oriente; e quell’apporto di sangue nuovo fu salutare per il destino dell’Europa. I nuovi barbari non riconoscono – né sarebbero in grado di farlo vista la sostanziale anarchia esistente oggi – i valori che, seppur deformati, reggono la nostra civiltà; alcuni sono attratti dalle distorsioni malaticce che la nostra società produce, consumismo e libertà senza limiti, di cui però a malapena si godono le briciole, ciò che determina la loro rabbia; altri ritengono che quelle distorsioni siano l’essenza della nostra civiltà che, dunque, disprezzano e da cui si isolano; in un caso come nell’altro la distanza e, soprattutto, l’incomprensione appaiono incolmabili. IMMIGRAZIONE E NUOVO ORDINE MONDIALE. Non v’è dubbio che una parte consistente di immigrati svolge i lavori meno gratificanti che, alcuni sostengono, gl’italiani e gli europei non sarebbero più disposti ad eseguire. Sarebbe facile in questo momento rispondere che la crisi economica sta spingendo i lavoratori del vecchio continente ad accettare qualsiasi tipo di occupazione e, dunque, l’esigenza sopra sottolineata si sta via via dissolvendo. Ma ritornando alla prima considerazione occorre tener in conto che certi lavori a basso salario (si calcola che un extracomunitario percepisca in Italia il 30% di meno rispetto ad un italiano) possono ben essere accettati da chi vive, ed è disposto a vivere, in condizioni miserrime, ammassato in appartamenti fatiscenti, o contando su agevolazioni nell’assegnazione di alloggi o di altri benefici che molti pubblici amministratori generosamente riservano loro dimenticando i propri concittadini, ossia coloro che col proprio lavoro ed il proprio carico tributario per decenni hanno permesso la costruzione ed il mantenimento di scuole, strade, ospedali, mezzi pubblici e altre fondamentali strutture sociali. Ma occorre andare al di là di questo dato e chiedersi a chi giova l’esistenza di una massa sradicata pronta per essere trasformata in mano d’opera disposta a lavorare a basso salario, non sindacalizzata e che solo sul lavoro può contare per mantenere, almeno teoricamente (ma di fatto non è così) il diritto a restare sul nostro territorio. Rispondere che tutto ciò corre a vantaggio dei datori di lavoro, che così possono contare su una mano d’opera più remissiva e meno cara, coglierebbe solo un aspetto certo rilevante ma solo parziale del problema. Sono da molto tempo operanti alcune centrali politico-economiche che agiscono a livello internazionale, al di sopra della normale percezione del cittadino e anche al di sopra della portata dei singoli governi statali la cui azione riescono ad influenzare; lo scopo di queste centrali è favorire la creazione di un governo-ombra mondiale che di fatto si ponga come supervisore dei più importanti settori della vita economica e politica soprattutto allo scopo di un controllo assoluto dei mercati; la più antica e potente di queste centrali internazionali è il C.F.R. Conseil on Foreign Relations (di chiara origine anglosassone) che dal 1921 è inserito ai massimi livelli dell’ establishment politico e finanziario degli Stati Uniti e utilizza i suoi governi come esecutore delle sue analisi e delle sue diagnosi. Ecco qui un’interessante sintesi del pensiero del CFR, secondo le parole di John Foster Dulles, segretario di Stato del presidente Truman e membro influente di quell’organizzazione, che già nel 1942 evocava la creazione di “un governo mondiale; la chiara ed immediata limitazione delle sovranità nazionali; il controllo internazionale di tutti gli eserciti e forze armate; un sistema universale di moneta; la libertà mondiale di immigrazione; la eliminazione progressiva di ogni restrizione, di dazi e quote nel commercio mondiale e la creazione d’ una banca mondiale democraticamente controllata”. Logica conseguenza di ciò é la determinazione di queste centrali internazionali di indebolire fino alle radici (senza necessariamente eliminarle formalmente) le sovranità nazionali spingendo i governanti, attraverso azioni di infiltrazione, di lobbying o di pressione politica, ad adottare misure che favoriscano l’abbattimento delle tradizionali barriere esterne od interne poste a protezione dell’autonomia nazionale, attraverso liberalizzazioni o provvedimenti antinazionali e di natura chiaramente progressista e liberale. Tra queste misure, come emerge dalle parole di Foster Dulles, rientrano certamente tutte le leggi pro-immigrazione che, nessuno può seriamente dubitarne, costituiscono un potente congegno ad orologeria puntato contro l’identità nazionale a cui si aggiungono le leggi che concedono il diritto di abortire: venti milioni di europei non ebbero il diritto di nascere negli ultimi quindici anni; lo stesso numero (è un caso?) di extraeuropei che, ufficialmente, vivono nel vecchio continente; individui sradicati nel posto che la natura aveva riservato ai nostri figli e ai nostri fratelli: una vera e propria sostituzione di popolazione protetta dalla dottrina dei diritti dell’uomo. L’invasione (questo termine coglie la concreta dimensione d’un fenomeno che ha portato in Italia, ufficialmente, cinque milioni di stranieri a cui va aggiunto un altro 20% di clandestini, in Germania sette milioni; un discorso diverso merita la Francia dove il principio dello ius soli, ossia il diritto di cittadinanza che acquisisce chi nasce in territorio francese, rende inutile ogni conteggio basato sulla nazionalità; possiamo dire che ci sono circa sei milioni di residenti d’origine nordafricana e subsahariana che da soli costituiscono il 10% della popolazione; chi si è recato a Parigi ha potuto constatarlo de visu) rappresenta in realtà un vero e proprio parassita del sistema socio-economico: aumenta il livello di delinquenza e fornisce mano d’opera alla criminalità organizzata; indebolisce dal punto di vista sociale il tessuto di una nazione, creando scollamento e aree di marginalizzazione; introduce nel territorio nazionale culti religiosi estranei alle tradizioni locali; permette ai grandi gruppi industriali di poter giocare al ribasso sotto il profilo dei livelli salariali, assistenziali e di sicurezza sul lavoro; provoca un aumento della spesa pubblica, per costi burocratici, sanitari, assistenziali, addirittura pensionistici (quest’ultimi andando a favorire chi abbia appena ottenuto la residenza magari per motivi di ricongiungimento familiare!); permette il progressivo dissanguamento della liquidità interna: l’ammontare delle rimesse che ogni anno partono dall’Italia dai lavoratori stranieri verso i paesi d’origine ha superato i sette miliardi di euro e in Europa i trenta miliardi e stiamo, anche qui, parlando delle cifre ufficiali, ossia i trasferimenti “tracciabili”: soldi che non saranno spesi o investiti nei paesi dove sono incassati, ma che andranno ad arricchire altri territori a discapito delle economie europee. E soprattutto eccita il fervore umanistico dei progressisti d’ogni risma (politici, religiosi, intellettuali) che vedono nel disordine il compimento delle loro malsane utopie e che non si rendono conto che l’immigrazione è un fenomeno anormale perché non è né normale né auspicabile lo sradicamento forzato di milioni di persone dai propri paesi d’origine. IMMIGRAZIONE CINESE. Merita distinte considerazioni il fenomeno dell’immigrazione cinese. Essa, da secoli, è una costante geopolitica di questo popolo che, nella sua espansione territoriale ha usato i metodi degli antichi romani, ossia l’utilizzo del soldato contadino; combatte per conquistare e poi coltiva, e con successo, la terra acquisita, impiantandosi stabilmente. In Europa, e in Italia in particolare, questo metodo è applicato al commercio dove il cinese, a prezzo di turni di lavoro e di salari al limite dello schiavismo e di una quasi compelta indifferenza dei diritti del lavoratore e delle regole amministrative e igienico-sanitarie (ciò che sarebbe inconcepibile per un europeo) però contando su una cappa di ”omertá comunitaria” (favorita dalla circostanza che i cinesi asssumono solo compatrioti), ha acquisito settori di mercato; e lo ha fatto giovandosi di un aiuto “comunitario”, ossia i danari della criminalità organizzata che la presenza commerciale in Italia e in tutto il mondo permette di riciclare agevolmente. E’ inoltre un dato notorio che il commercio cinese in Italia – e particolarmente quello relativo all’abbigliamento – si svolge nella quasi totale irregolarità fiscale e amministrativa; e in alcune occasioni col silenzio delle nostre autorità preposte ai relativi accertamenti ; non si spiegherebbe altrimenti l’assoluta libertà con cui la presenza cinese, fatta anche e soprattutto di laboratori illegali, è riuscita a distruggere economicamente la città di Prato, capitale del prodotto tessile in Italia e una delle più importanti d’Europa (da dove, secondo fonti ufficiali, giornalmente partono rimesse per l’estremo oriente pari a 500.000 –cinquecentomila- euro). A fronte dell’iniziativa della polizia che aveva incominciato ad intensificare i controlli per reprimere l’illegalità commerciale, intervenne addirittura l’ambasciatore cinese per assicurare i suoi buoni uffici presso le autorità municipali e affievolire la pressione sui propri connazionali. Questo semplice episodio è il riflesso del costante interesse geopolitico che il governo cinese attribuisce alla sua emigrazione che considera come uno strumento di espansionismo economico e che si trova, paradossalmente, rafforzata dalla stessa natura ultra-identitaria del suo popolo, stretto da duemila anni attorno alla propria lingua – che ha costituito il vero collante nazionale – e alla propria etnia “han”. Le comunità cinesi vivono per loro conto, non si mischiano con altre e proteggono caparbiamente dagli sguardi indiscreti la propria “città proibita”. Alla faccia dei profeti della “immigrazione-integrazione”. SOLUZIONI. Negli ultimi anni è totalmente mancata in Europa la volontà politica di contrastare l’immigrazione; e anche governi di impostazione non progressista hanno spalancato le porte all’invasione extracomunitaria; basti pensare che fu proprio il governo Berlusconi nel 2002, un anno dopo il suo insediamento e nonostante le promesse elettorali di contenere l’immigrazione, che varò col voto favorevole della Lega Nord una sanatoria che permise la regolarizzazione di oltre 700.000 immigrati che si trovavano in condizioni di irregolarità o clandestinità; e a questi si aggiunsero altre centinaia di migliaia di nuovi arrivi grazie al diritto di ricongiungimento familiare. E tutti i governi, di centro destra e di centro sinistra, hanno continuato la politica dell’accoglienza stabilendo , ogni anno, le quote d’immigrati per ogni paese straniero, secondo le domande di lavoro. A ciò occorre aggiungere l’approccio completamente sbagliato che è stato adottato in Italia per combattere l’immigrazione clandestina, ossia l’utilizzo eccessivo dello strumento giudiziario; che ha portato – e tuttora porta - molti magistrati imbevuti di retorica progressista a disapplicare la normativa o a interpretarla in maniera favorevole alla libertà/impunità del clandestino; un caso su tutti, a dimostrazione del grado di criminale stupidità di certa parte della magistratura, quello avvenuto a Modena diversi anni fa, dove un giudice (appartenente alla corrente di sinistra, “magistratura democratica”) assolse alcuni nordafricani colpevoli di spaccio di droga per “stato di necessità”, ossia ritenne che la loro mancanza di mezzi di sostentamento li aveva “costretti” essi erano stati “costretti” al delitto; questo episodio, sicuramente paradossale nella sua abnormità, costituisce però la punta dell’iceberg sotto la cui superficie emergente ribolle una mentalità certamente meno rozza ma non meno pericolosa: quella della illuministica e rousseauiana incondizionata simpatia per il buon selvaggio, vittima e mai colpevole e bisognoso di comprensione e tolleranza da parte dello Stato, ma a spese dei cittadini che ne subiscono le conseguenze; il tutto in un crescente quadro di deresponsabilizzazione delle attività criminali degli “emarginati” e di colpevolizzazione dell’uomo bianco, reo di aver sfruttato il terzo mondo. La realtà carceraria italiana, però (cocciuta come tutte le realtà) conferma le valutazioni sull’indissolubilità dell’equazione “più immigrazione = più delinquenza”; oltre la metà della popolazione carceraria, a fronte d’una percentuale di residenti pari all’8-9%, è costituita da extracomunitari; e non solo clandestini ma anche in misura rilevante persone entrate legalmente nel nostro territorio. E’ inoltre incredibile come, nonostante il forte allarme sociale causato dall’aumento degli sbarchi di disperati sulle nostre spiagge, esponenti politici di varia provenienza si stiano facendo promotori dell’introduzione, nel nostro sistema legislativo (e la stessa cosa sta accadendo in Germania), dello “ius soli": concezione giuridica che consentirebbe, automaticamente, a chiunque nasca sul territorio italiano di acquisire la cittadinanza permettendo contemporaneamente ai suoi genitori di ottenere l’immediata residenza, primo passo per ottenere poi la cittadinanza. In Italia - ed in tutta Europa, ad eccezione della Francia - è in vigore il principio dello "ius sanguinis", secondo cui solo nascendo da almeno un genitore italiano si è cittadini, in linea coll’idea d’appartenenza nazionale, ossia una sintesi che esprime una medesima origine etnica e una comunanza linguistica e storica; e per ottenere la nazionalità italiana, a parte casi particolari, la legge attualmente richiede un tempo non inferiore a dieci anni di residenza legale e un’istruttoria approfondita da parte del ministero dell’Interno. Il concetto di nazione, che i partigiani (consapevoli o meno) del Nuovo Ordine Mondiale vogliono eliminare o subordinare alle regole d’un mercato globale, da esso controllato, si fonda sulla continuità generazionale e trova la propria espressione più reale in una comunanza di costumi e di leggi civili e sociali, in una comune appartenenza religiosa ed etnica, quest’ultima indicando né più né meno la medesima origine familiare, nel senso romano del termine. Lo ius soli è invece figlio di una visione cosmopolita, astratta e dunque irrealistica e non a caso adottata dalla visione illuministica e rivoluzionaria della Francia (ma sarebbe storicamente più corretto limitare questo il centro di questo flagello a Parigi) repubblicana; la stessa che si inventò la “dea Ragione” per sostituirla alla vera fede del popolo francese. E’ però in maniera istintiva evidente che l’essere italiani, tedeschi, francesi o spagnoli non può dipendere da un pezzo di carta e da qualche linea d’inchiostro; e il principio dello ius sanguinis deve essere mantenuto ed accompagnarsi con altre misure che riportino ordine nei nostri territori, ossia: 1) blocco immediato dell’immigrazione che appare oggi ancora più intollerabile se si pensa all’attuale momento di disoccupazione e alla grave crisi economica; 2) espulsione immediata di tutti coloro che abbiano commesso reati o siano clandestini o si trovino senza lavoro; 3) riforma della normativa in materia di espulsioni, contemplando l’accompagnamento coattivo alla frontiera in tutti i casi di permanenza illegale nel territorio; previsione di pene detentive da uno a sei mesi da scontarsi immediatamente, in caso di illegale reingresso, senza possibilità di concessione del beneficio della sospensione condizionale con espulsione e accompagnamento alla frontiera dopo l’esecuzione della pena; 4) rafforzamento dei controlli delle frontiere marittime e adozione delle necessarie misure atta a impedire, nel rispetto della Convenzione O.N.U. sul diritto del mare, l’entrata illegale di imbarcazioni nelle nostre acque territoriali; 5) coordinamento dei paesi mediterranei dell’unione europea per l’adozione d’una politica comune di controllo delle frontiere marittime; 6) censimento degli stranieri extracomunitari presenti sul territorio e concessione della residenza a coloro che, secondo una equa e umana valutazione, siano già stabilmente radicati nel nostro tessuto sociale. A chi obbietta che l’espulsione non sarebbe una misura concretamente possibile ricordiamo che, all’inizio del XVII secolo, dopo una serie di rivolte e vani tentativi di assimilazione, Filippo III di Spagna imbarcò di forza più di trecentomila moriscos musulmani sbarcandoli a Orano, da dove poi si dispersero nell’Africa del nord e nei territori dell’impero ottomano. Oltre alla necessità che ogni paese dell’Unione adotti una comune politica di lotta all’immigrazione, occorre aggiungere che simili misure potrebbero trovare ragion d’essere e un buon esito in presenza di due ulteriori condizioni: a) una riforma della politica familiare e di incentivo alla natalità, di cui l’Italia è totalmente priva ma che alcuni paesi europei stanno intraprendendo (soprattutto all’est), attraverso un sostegno sociale, economico ed anche culturale alla famiglia naturale e proibizione dell’aborto che, attualmente in Europa raggiunge la cifra di un milione e duecentomila ogni anno e b) una politica di intervento sociale ed economico degli stati europei nel continente africano che, attraverso concreti aiuti strutturali, consenta a quei popoli di vivere dignitosamente nelle proprie terre. Purtroppo, quest’ultima condizione manca dei più elementari presupposti, ossia la concreta possibilità delle nazioni europee di affrontare, in maniera coordinata ed uniforme, un decisivo cambio di marcia: respingere la colpevolizzazione del passato colonialista, riprendere possesso della propria identità e del proprio ruolo, dotarsi di strumenti di autonomia decisionale (politica, economica, monetaria, militare) – che oggi mancano a causa delle azioni di quelle centrali internazionali - che permetta loro di applicare il principio per cui la difesa del territorio la si inizia al di là degli stessi confini. In un mondo che si fa sempre più multipolare (e questo è confortante ove si pensi a quarantacinque anni di dopoguerra bipolare e di altri dieci anni di solitaria egemonia statunitense) e dove gruppi regionali si uniscono per costituire una massa critica di fronte alla realtà del globalismo, solo l’Europa rimane inerme, spettatrice muta e imbelle senza una chiara identità; alla quale in compenso non hanno rinunciato Cina, India, Russia, sud America, alcuni stati islamici che, insieme coll’asse capeggiato da Usa, Gran Bretagna, Israele , e dotati di sempre maggiori strumenti di potenza tecnologica e militare coltivano quello che alcuni hanno definito “orizzonte di guerra”, che non significa volontà di farla bensì di essere pronti a menare le mani quando questa diventa l’ultima opzione; ma neppure basta saper menare le mani perché bisogna anche possedere o darsi uno scopo, un traguardo e questo l’Europa – questa Europa - non ce l’ha proprio perché - come dicevamo prima – si vergogna del suo passato e si dimentica delle sue radici. Ed infatti le uniche missioni militari che le nazioni europee possono o sono chiamate a compiere vedono i loro governi e i loro soldati fare gli utili idioti degli interessi made in U.S.A. che, loro sì, un progetto ce l’hanno e si chiama “destino manifesto” che risale all’ottocento e da cui non si sono mai scostati. E finché il nostro continente sarà culturalmente colonizzato da un’ideologia che non le appartiene, quella progressista-liberale, col suo carico di egualitarismo, di ripudio del passato e di culto dell’economicismo , non ci sarà nulla che potrà fermare l’altra colonizzazione che stiamo subendo, quella – più visibile – della sparizione progressiva delle nostre etnie e la loro sostituzione con altre popolazioni.

domenica 16 settembre 2012

DIETRO L'ASSASSINIO DELL'AMBASCIATORE AMERICANO A BENGASI

DIETRO L’ASSASSINIO DELL’AMBASCIATORE AMERICANO A BENGASI Di Bernard Lugan Attore più che attivo nel rovesciamento di Mouammar Gheddafi, Christopher Stevens, durante uno spostamento a Bengasi, è stato preso in trappola nei locali del consolato del suo paese. Al di là di questo assassinio e del suo pretesto pseudoreligioso quale analisi possiamo fare della situazione in Libia ? Fino ad oggi, a credere ai media, la Libia era sulla strada della normalizzazione : l’economia si stava rimettendo in moto con la ripresa delle esportazioni di petrolio e di gas e le istituzioni democratiche si insediavano dopo le elezioni legislative del 7 luglio 2012. Ciechi e sordi, gli osservatori hanno belato di gioia nel vedere la sconfitta dei fondamentalisti e la vittoria dell’ “Alleanza delle forze nazionali” (AFN) presto battezzata come “liberale” . Ora, come ci si doveva aspettare, questo calendario democratico assai « eurocentrico » non ha evidentemente permesso di rimettere il paese in piedi e questo per una semplice ragione, ossia che la Libia non esiste più. Il colonello Gheddafi era riuscito, a prezzo d’una severa dittatura, a imporre la stabilità interiore in un paese oggi minacciato da una frammentazione regionale (Tripolitania-Cirenaica-Fezzan) a cui s’aggiungono delle fratture interregionali e religiose. In Tripolitania due grandi coalizioni regionali s’oppongono : 1.All’ovest, l’AFN di Mahmoud Jibril ha per cuore la frazione tripolitana dei Warfalla, la sua tribù che, da sola, costituisce il 30% della popolazione. I suoi alleati e soci sono reclutati à Zenten [1] e tra le tribù dell’ovest, tra cui i Berberi del jebel Néfusa e di Gahryan. 2.All’est, la coalizione islamo-Misurata è, quanto a lei, potentemente sostenuta dal Qatar. Il porto di Misurata è oggi in mano a quelle milizie gangsgter-fondamentaliste che linciarono il colonnello Gheddafi, tranciarono le mani del suo figlio secondogenito prima di cavargli gli occhi e sgozzarlo. Furono questi «combattenti della libertà », questi «democratici» cari a Bernard Henry Levi, che il presidente Sarkozy ordinò ai commando francesi di salvare quando le forze del colonnello Gheddafi erano sul punto di prendere la città… Bel colpo ! In Cirenaica, dove il 6 marzo 2012, Ahmed Zubaïr al-Senoussi è stato eletto emiro dai capi delle tribù, due grandi forze s’oppongono, i federalisti e gli islamisti. L’irredentismo della Cirenaica è un dato storico. Negli anni 1945-1950, quando l’ONU forzò Gran Bretagna , Italia e Francia ad accelerare il processo d’indipendenza della Libia, le tribù di Cirenaica, reticenti all’idea della creazione d’uno Stato libico, accettarono l’unione a due condizioni: 1.Che il capo della confraternita senussa, Idriss ne divenisse il capo. Egli regnò col nome d’Idriss primo dal 1951 al 1969. 2.Che una ampia autonomia fosse riconosciuta alla Cirenaica. Nel 1969, dalla sua presa del potere, Mouammar Gheddafi abolì la monarchia e impose il dominio della Tripolitania, ciò che la Cirenaica non accettò mai. Ecco perché la guerra civile che andava a rovesciarla vi cominciò. Gli islamisti che hanno sostenuto la ribellione della Cirenaica vogliono ora comandare i federalisti, ma si trovano di fronte altri musulmani. Un feroce combattimento oppone infatti i fondamentalisti che non hanno tradizione locale ai membri delle confraternite sufi il cui peso regionale è importante. Il feudo degli islamisti radicali è Derna dove hanno costituito un Emirato. Da molte settimane, essi tentano di prendere il controllo di Bengasi. L’attacco contro il consolato americano fa parte della loro strategia. Chi andrà ad imporsi? E’ impossibile dirlo. Attualmente i fondamentalisti di Cirenaica cercano d’appoggiarsi alle milizie di Misurata le quali a loro volta cercano il loro sostegno contro quelle dell’ovest. Furioso per la sconfitta dei suoi protetti a Tripoli, il Qatar pare particolarmente attivo in questa operazione. La questione che si pone ormai è di sapere se la Libia può sopravvivere come Stato. Si sta lentamente profilando infatti una situazione di guerre regionali, tribali, di clan, religiose ; come in Somalia. Che potrebbero essere seguite da un’esplosione territoriale, il paese trovandosi allora ritagliato come « tasti di pianoforte » con un porto a prolungamento dei giacimenti d’idrocarburi dell’interno. Ormai, l’alternativa è semplice : o le nuove autorità mettono un termine al caos – ma come ? – e ricostruiscono lo Stato in una qualche forma, o la Libia rimane ingovernabile. In questo caso, gli islamisti potranno allora giocare una carta maestra, quella del modello religioso che trascenda le divisioni al fine di coagularle in un tutto comune, l’Oumma. Coloro che hanno permesso questo disastro coi suoi strascichi in tutta la fascia del Sahel (v. i numeri de l’Afrique Réelle consacrati alla questione ), sono quelli che hanno deciso d’immischiarsi nella guerra civile libica, il primo posto dei quali spetta all’ex presidente della Repubblica francese. Quanto allo sventurato ambasciatore americano, il meno che si possa dire è che i suoi vecchi protetti si sono dimostrati piuttosto ingrati verso di lui… Bernard Lugan – 12/09/12 Retrouvez l’Afrique Réelle sur www.bernard-lugan.com [1] I miliziani di Zenten tengono prigioniero Seif al Islam, il figlio del colonnello Gheddafi

venerdì 14 settembre 2012

GLI ARGENTINI SANNO REAGIRE Milioni di argentini sono scesi in piazza questa notte, in tutte le città, per manifestare contro il governo di Cristina Kirchner Fernandez Wilhelm. Ho visto gente normale, non politicizzata, chiamata a raccolta da solo una settimana e che spontaneamente s’è riversata sulle larghissime avenidas di Buenos Aires. Un fiume di persone che non s’arrestava mai e proseguiva per ore, diretto verso Plaza de Mayo, dove si trova la Casa Rosada, il palazzo presidenziale per sfogare – in maniera pacifica – la sua rabbia, la sua indignazione, la sua frustrazione contro il governo ma anche la sua insofferenza personale e fisica nei confronti della Kirchner, del suo modo di parlare, di atteggiarsi. Qualche giorno prima costei aveva dichiarato che gli argentini dovevano prima di tutto temere Dio ma anche un po’ lei; brutto sintomo, che manifesta arroganza ed ignoranza ma soprattutto debolezza. L’occasione delle manifestazione è stato il no alla riforma costituzionale che avrebbe ammesso la possibilità d’una ulteriore rielezione del presidente in carica; e questa proposta, paradossalmente, era avanzata dal governo negli stessi giorni in cui sondaggi attendibili indicavano un fortissimo calo di popolarità della Kirchner; altro sintomo di disperata debolezza. Chi l’ha sentita parlare – ed io ho avuto questa sventura – e possiede qualche briciolo di senso dell’orrore non può che rimanerne disgustato; la sua cadenza piagnucolosa, lacerante e singhiozzante, i suoi discorsi infarciti di becera demagogia e di penosi riferimenti personali, tipici di chi soffre d’ipertrofia dell’ego danno l’idea di quello che è: una lavandaia; al suo confronto la Floriani-Mussolini appare la duchessa di Kent, la Santanchè Madame de Stael e Di Pietro un fine dicitore. Sono classista? Si, ma questo mio personale difetto non sposta di un millimetro la naturale e ovvia constatazione che non tutti possono fare tutto e una lavandaia non può certo aspirare a governare decentemente una nazione, tanto più se questa è grande undici volte l’Italia. Ho letto in giro ispirate ed entusiastiche considerazioni su questa donna e sul suo operato, espresse da chi si trova a diecimila chilometri di distanza e scopiazza quello che qualche blogger filogovernativo butta nella rete; ogni riferimento a “Rinascita” è puramente casuale. Questa lavandaia, avvocaticchio simpatizzante montoneros (quelli che in nome d’un peronismo socialisteggiante assassinavano i peronisti veri)che insieme col defunto marito difendeva le banche nelle cause di recupero crediti contro i poveracci e che per una serie di irripetibili casualità è ascesa alla massima carica della nazione (il marito, Nestor Kirchner – a cui lei succedette - nel 2003 vinse col 20% perché Menem anch’egli arrivato al ballottaggio si ritirò) ha avuto la ventura di veder coincidere il proprio mandato con un incredibile rialzo dei prezzi internazionali dei cereali e della soja – che l’Argentina produce in grande quantità – e quindi con un discreto benessere generalizzato; e dopo il crac del 2001-2002 non poteva che seguire una ripresa; che il dio delle borsa dei cereali di Chicago ha favorito abbondantemente, e quindi senza nessun merito della Kirchner che al massimo ha approfittato della favorevole congiuntura per applicare tasse altissime agli esportatori di granaglie e riempire così le casse dello Stato. La santificazione di questa donna, operata ahimè anche in ambienti “nostri” si fonda su falsi miracoli: tra le leggende metropolitane più popolari quella secondo cui “l’argentina non avrebbe pagato il debito al Fondo Monetario!!!”; balle; richiese ed ottenne alcuni aggiustamenti ma ha pagato e sta ancora pagando fino all’ultimo peso; altro finto miracolo: “ha nazionalizzato il petrolio!!!”; balle, ierballe; ha espropriato solo la quota della Repsol spagnola (lasciando intatta in mani private la quota del 31% della famiglia Eskenazi e un altro 12% di fondi d’investimento statunitensi) e, guarda caso, lo ha fatto rientrando in tutta fretta ed in anticipo dal vertice dei paesi americani di Cartagena, dopo un colloquio privato con Obama; Repsol era in trattative per vendere la propria quota alle imprese petrolifere cinesi Sinopec Group e Cnooc , due industrie di Stato; potevano gli Stati Uniti, che stanno accerchiando la Cina per strozzarne le possibilità di accesso alle fonti di energia, permetterle di impossessarsi di risorse così vitali nel suo giardino di casa? In cambio Obama le ha promesso appoggio diplomatico nella questione “Malvinas”. *** La gente che ha riempito le strade di tutta l’Argentina era l’espressione degli strati sociali medi; quelli che non fanno politica, che lavorano e vogliono godere delle loro piccole libertà; non sono scesi in piazza per reclamare diritti umani, per protestare in nome di principi ideologici o politici; sono la maggioranza silenziosa che non può più sopportare un’inflazione del 25% all’anno; che non ne può più della corruzione spaventosa di questo governo e del modo in cui questo insabbia le relative inchieste, che non ne può più della crescente insicurezza, motivata da un’immigrazione di ceppi non europei, accolti con bonaria soddisfazione dai progressisti kirchneristi (in nome della “inclusione sociale”); che non può più tollerare le estorsioni che deve subire chi vuole comprare dollari per andare all’estero (il governo, quando concede il diritto all’acquisto addebita il 15% sui dollari spesi oltre una ridicola soglia massima; quando non lo concede l’argentino è costretto a comprare il dollaro al mercato nero ad un 35% in più del cambio ufficiale); che non ne può più di pagare conti salati al dentista che gli fa l’anestesia perché il governo blocca medicamenti e altre forniture mediche (in nome della produzione nazionale che però non realizza) facendo così schizzare il prezzo delle fialette di anestetico; che sono stufi di vedere frotte di favoriti ed assistiti che non lavorano e che fanno figli per ottenere i sussidi che permettono loro di continuare a non lavorare (uno stato serio offre impiego, non beneficenza e gli aiuti ai figli li si dà a chi già lavora e necessita d’un sostegno per mandarli a scuola, crescerli e garantirne l’istruzione). E che sono stanchi di questa ciarlatana e del suo grottesco mascherone di smorfie e della sua claque di professorini marxisti-leninisti che pontificano sull’economia senza aver mai condotto una impresa in vita loro; e lo si vede perché le aziende di Stato a loro affidate dopo la nazionalizzazione (Areolinas Argentinas ne è l’esempio più lampante) perdono milioni di dollari al giorno. Bravi argentini, la capacità di reagire non vi manca.