lunedì 28 febbraio 2011

LA CRISI LIBICA, aspirazione democratica o esplosione delle alleanze tribali?

di Bernard Lugan
Traduzione e diffusione autorizzate.
Tratto dal sito www.realpolitik.tv

Nessuno rimpiangerà il satrapo libico responsabile di molti attentati, d'innumerevoli crimini e della destabilizzazione d'intere regioni dell'Africa. Ciò detto lasciamo il dato emozionale ai cultori del superficiale e il deliquio ai giornalisti per interessarci della realtà. La fine di Gheddafi, che rischia d'avere conseguenze di cui noi siamo ben lontani dal misurarne l'ampiezza, è in effetti assai meno legata ad un'aspirazione democratica popolare piuttosto che alla manifestazione dell'esplosione dell'alchimia tribale sulla quale riposava il suo potere.
A differenza di Tunisia ed Egitto, la Libia di cui più del 90% del territorio é desertico, non é in effetti uno Stato ma un conglomerato di più di 150 tribù divise in sotto-tribù e in clan. Questi gruppi hanno delle alleanze tradizionali e mutevoli nel seno delle tre regioni che compongono il paese, ossia la Tripolitania con la città di Tripoli che s'affaccia verso Tunisi, la Cirenaica la cui capitale é Bengasi e che é rivolta verso il Cairo e la regione di Fezzan, la cui principale città é Sebba e che si protende verso il bacino del Ciad e l'ansa del Niger.
Dall'indipendenza della Libia del 1951 fino al colpo di Stato che portò il colonnello Gheddafi al potere nel 1969, la Libia fu una monarchia diretta dalle tribù cirenaiche. Membro d'una piccola tribù di cammellieri beduini, il colonnello Gheddafi fu portato al potere da una giunta militare multi-tribale ma nella quale dominavano le due principali tribù della Libia, quella dei Warfallah di Cirenaica e quella dei Megahra di Tripolitania. La maggior parte delle tribù di Cirenaica rimaneva però attaccata alla monarchia e così il colonnello Gheddafi si produsse in una grande mossa politica sposando una giovane donna del clan dei Firkeche, membro questo della tribù reale dei Barasa, ciò che gli assicurò l'adesione della ribelle Cirenaica.
Orbene, oggi é tutto il suo sistema d'alleanza colla Cirenaica che é volato in pezzi. La data cruciale dello smembramento tribale del sistema Gheddafi è il 1993 quando un colpo di Stato dei Warfallah fu annegato nel sangue. Gli odi furono in seguito smorzati tanto forte fu il terrore imposto dal regime ma le tribù di Cirenaica non attendevano che un'occasione per rivoltarsi e questa s'é presentata nel mese di febbraio del 2011. Esse si sono così impadronite della regione sfoggiando la bandiera dell'antica monarchia.
Gheddafi ha certamente perduto la Cirenaica, come i turchi e gl'italiani prima di lui, ma gli resta la Tripolitania ed il Fezzan. In queste due regioni il regime aveva ugualmente costituito delle sottili alleanze tribali. Nel momento in cui queste righe sono scritte, ossia il 27 febbraio 2011, certe tribù hanno lasciato il campo di Gheddafi ma le grandi solidarietà restano seppur vacillanti.
A corto termine, il principale pericolo che minaccia il colonnello Gheddafi non è la Cirenaica separata da più di 1.000 chilometri di deserto da Tripoli; neppure é il surreale esercito libico e ancor meno i volontari che si vedono sfilare nelle vie di Bengasi o di Tobruk. Tutto è in effetti sospeso al filo delle scelte che faranno i capi della tribù guerriera del Megahra che domina in Tripolitania. A lungo alleata a quella di Gheddafi, i Khadidja, essa fornì un tempo il numero due del regime, nella persona del comandante Abdeslam Jalloud prima della sua caduta in disgrazia del 1993 allorchè fu sospettato d'aver intrattenuto dei legami coi putschisti Warfallah. Se i Megahra restano leali o anche assumono una posizione di neutralità, Gheddafi potrà mantenersi ancora per un certo periodo al potere su una parte del paese. In caso contrario, si troverà allora davvero in difficoltà e sarà costretto a ripiegarsi verso la sua sola tribù, la quale non schiera che 150.000 membri.
Se i Meghara abbandonassero Gheddafi ciò vorrebbe dire ch'essi hanno intenzione d'impadronirsi del potere e la Libia sarebbe tagliata in due, Tripolitania e Cirenaica venendosi a trovare dominate dalle alleanze tribali costituite intorno ai Wafallah e ai Meghara. La questione che si porrebbe allora sarebbe quella della sopravvivenza dello Stato Libico.
Questi due insiemi si combatteranno o si divideranno il potere in un quadro federale o confederale? Lo ignoriamo ma il pericolo é di veder apparire una situazione di guerre tribali e di clan come in Somalia. Esse potrebbero essere seguite dall'esplosione in più regioni, ciò che aprirebbe uno spazio insperato per AQMI - Al Qaeda del Magreb Islamico - che troverebbe terreno fertile in mezzo al caos e, in più, nel sud del paese, una dissidenza della popolazione toubou che avrebbe delle ripercussioni nel Ciad, ed iniziative tuareg alle quali potrebbero appoggiarsi l'irredentismo tuareg del Mali e del Niger; senza parlare, naturalmente, delle conseguenze sulle politiche petrolifere che deriverebbero da un simile conflitto.

martedì 15 febbraio 2011

ITALIA ED EUROPA ASSENTI INGIUSTIFICATE

Il ministro Maroni ha bacchettato le istituzioni europee colpevoli d'aver lasciata l'Italia sola a gestire l'emergenza dei profughi della crisi sudmediterranea.
Gli sbarchi di tunisini ed algerini, giá arrivati oltre il numero di quasi seimila nello spazio d'un mese consentono una proiezione di circa ottantamila nuovi arrivi nel giro d'un anno, una vera e propria "calamitá" umanitaria.
Maroni ha ragione ed ha torto.
Ha torto quando autoassolve il proprio ministero; un governo che si rispetti deve essere in grado d'analizzare gli eventi, prevederne le conseguenze ed apprestare tutte le misure necessarie a scongiurarne gli effetti piú pericolosi.
Sono ormai due mesi che Tunisia ed Algeria, e non solo loro, sono infiammate da pesanti disordini e non ci voleva certo un esperto uscito dalla War Academy di West Point per capire che quelli potevano costituire una buona ragione (o forse sarebbe meglio parlare di buon pretesto, ma l'effetto non cambia) per esodi e fughe "verso la libertà".
Abbiamo un alleato - almeno così ci viene presentato - Gheddafi, a cui abbiamo promesso soldi ed aiuti affinché la Libia funga in qualche modo da guardiacoste delle rive nordafricane, per frenare la partenza d'indesiderati clandestini verso le nostre spiagge.
Un governo previdente avrebbe dovuto, alle prime avvisaglie della crisi tunisina, predisporre piani di dirottamento ed accoglienza dei fuggitivi verso le coste libiche e gestire là, lontano da casa nostra, la situazione.
Sarebbe bastata una minima volontá politica, unita a buoni canali informativi e a qualche motovedetta piazzata al largo delle coste tunisine per tenere alla larga la prospettiva, prevedibile ed imminente, della calamitá umanitaria.
Il confine lo si comincia a difendere oltre il confine.
Ma la volontá e la competenza, al pari del coraggio come diceva Don Abbondio, se non le si hanno non ce le si puó dare e Maroni, a cui non puó essere addebitato tutto il peso di questa situazione, fa il fuoco colla legna che si ritrova.
Il nostro ministro dell'Interno ha peró ragione nell'accusare le istituzioni europee di totale indifferenza per quanto l'Italia potrá andare a subire nei prossimi mesi.
Se il nostro paese subisce le conseguenze d'un vero e proprio deficit di credibilitá sul piano internazionale, che il ridente satrapo di Arcore ha contribuito in maniera decisiva a creare colla sua congenita mancanza di serietà, ció che rende l'Italia, perlomeno come peso diplomatico-politico, un paese a livello di terzo mondo, l'Europa ha lei stessa voluto imboccare la strada d'un basso se non nullo profilo di politica estera.
Prima potenza industriale ed economica del mondo, con un grado di progresso sociale senza eguali, l'Europa sembra aver rinunciato ad assumere un ruolo geopolitico di rilievo in questo mondo ormai sempre pìú multipolare.
Non ci rinunciano, beninteso, Gran Bretagna (per quanto di europeo essa abbia ben poco), Francia e Germania, queste ultime non a caso avendo stretto sempre di piú importanti contatti, economici e militari, colla Russia.
Ma lo fanno loro, non l'Europa; forti della loro secolare esperienza politica hanno ben capito che questa mastodontica realtá é come un bue; forte, resistente e (economicamente) trainante ma senza gli attributi.
Questo enorme spazio socio-economico, (con tutti i suoi enormi difetti, sia chiaro) é forte, ricco, civilmente e socialmente progredito (perlomeno se paragonato al resto del mondo) ma ha perso in agilitá a causa d'una burocrazia ossessiva e parassitaria che gli ha succhiato ció che sempre aveva posseduto: la volontá, la capacitá di darsi un destino, il senso della propria esistenza.
Non piú capi di Stato ma burocrati, non piú politici ma banchieri, non piú strateghi ma funzionari.
Senza i primi, infatti, sono i secondi a comandare.
L'Europa ha insomma perduto quello che Aymeric Chauprade chiama l' "orizzonte di guerra"; che non significa volere la guerra, auspicare o praticare politiche d'aggressione, tenere atteggiamenti bellicosi; nossignore, significa mantenere come ultima opzione, ed essere disposti ad adottarla ove il caso l'imponga, l'uso della forza sapendo che i propri interlocutori ne hanno piena consapevolezza.
Un "orizzonte di guerra" ce l'hanno gli Stati Uniti e i loro alleati anglosassoni, ce l'ha la Russia, ce l'ha la Cina, ce l'ha Israele, ce l'ha l'India, ce l'hanno molte nazioni dell'area islamica.
Mentre L'Europa, quando ha mandato in giro i propri soldati (e il punto qui non é se era giusto o sbagliato), l'ha fatto nascondendosi sotto le gonne dello zio Sam, strillando che erano "missioni di pace".
Che se ne fa del suo acciaio, della sua produzione industriale, del suo sviluppo tecnologico, della sua laboriositá, del suo progresso sociale, dei suoi cervelli, della sua bimillenaria civiltá se, accanto a tutte queste belle cose non é capace, quando occorre, di sbattere i pugni sul tavolo per farsi rispettare? E di farlo soprattutto in prima persona?
Potrebbe essere forte, agile e incutere timore come un toro ma qui abbiamo solo un bue, ubbidiente e massiccio ma soprattutto appesantito, rassegnato e catatonico.

lunedì 14 febbraio 2011

L'OLOCAUSTO DELL'ARIA. DRESDA 13-14 FEBBRAIO 1945

Si era ultimamente udita la vergognosa panzana di qualche imbecille secondo cui il criminale bombardamento di Dresda avrebbe costituito una sorta di rappresaglia conseguente alla scoperta degli orrori del campo di concentramento di Auschwitz, all'arrivo delle truppe sovietiche il 27 gennaio.
Panzana, perché la strategia terroristica inglese prima e angloamericana poi era giá iniziata fin dalla salita al potere di Winston Churchill, il 10 maggio 1940.
Fino a quel momento nessuno dei contendenti aveva attaccato "espressamente" la popolazione civile; la notte dell'11 maggio 1940 trentasei bombardieri inglesi iniziarono la strage di civili portandosi sopra München-Gladbach, in Westfalia. Gli attacchi tedeschi contro Londra non solo furono di quattro mesi successivi (7 settembre 1940) al primo attacco inglese ma furono preceduti dall' avvertimento tedesco, dopo il sesto bombardamento subìto da Berlino, che in caso di nuovi attacchi contro la popolazione civile sarebbe scattata la reazione.
Ben prima dell'apertura dei cancelli del campo di Auschwitz la RAF s'era adoperata con sadica dedizione a scatenare la propria furia sulla cittá d'Amburgo dove, a partire dalla notte del 24 luglio fino al 2 agosto del 1943, furono scaricate ottantamila bombe dirompenti, ottantamila al fosforo liquido e cinquemila bidoni di fosforo liquido; metá delle case della cittá furono distrutte; 50.000 le vittime immediate degli attacchi, nella stragrande maggioranza bruciati vivi, 125.000 i feriti ed ustionati di cui 50.000 deceduti nei giorni successivi.
Vergognosa, poiché solo una dev'essere la tragedia da ricordare (indovinate quale), mentre tutte le altre o non debbono costituire motivo per "rimanere ostaggi del passato" (Napolitano dixit) o, comunque, possono e/o debbono trovare una esigenza di "contestualizzazione" storica (la lotta contro la barbarie nazi/fascista, la reazione, l'esasperazione, la democrazia etc etc etc).
La campagna di annientamento del territorio e della popolazione tedesca continuó trionfante nei mesi successivi; in quella stessa estate Bochum, Dusseldorf, Remscheid, Darmstadt, Strasburgo, Brema, Kassel, Francoforte, Mannheim, Stoccarda, Monaco, Norimberga, Aquisgrana, Hagen, Münster furono piú volte visitate dai bombardieri del maresciallo Harris, il macellaio di fiducia di Sua Maestá.
Dal 18 novembre di quell'anno fino al marzo del 1944 Berlino fu continuamente devastata da attacchi terroristici e Lipsia subì un durissimo bombardamento il 3 dicembre 1943.
Una frenesia distruttrice, una libidine di odio e di volontá d'annientamento, meritevoli d'una indagine psichiatrica, s'impadronirono del boia Harris e del suo degno compare statunitense Spatz.
Piú la Germania s'indeboliva di fronte alla coalizione avversaria, piú la ferocia aumentava d'intensitá.
Alla fine del 1944 furono bombardate la Friburgo tedesca e, forse per non sbagliarsi, anche quella svizzera; Colonia, Duisburg, Essen, Düsseldorf, Ulm, Stoccarda, Karlsruhe, Heilbronn, Ludwigshaven, Saarbrücken, Norimberga, Monaco, Bonn, Coblenza, Brema, Wilhelmshaven, Braunschweig, Osnabrück, Münster, Giessen, Düren negli ultimi mesi del 1944 furono annientate da tonnellate di bombe scagliate dai "liberators" democratici.
Dresda era un bersaglio appetibile; era popolata da centinaia di migliaia di profughi fuggiti da est all'arrivo dell'Armata Rossa.
Così scrive Piero Buscaroli: "Churchill aveva fretta, stava preparandosi a partire per Malta prima e poi per Yalta e voleva fare un figurone con Stalin. Era convinto che una carneficina di gente così poco entusiasta d'essere liberata dal suo esercito non potesse che fargli piacere. Convocò il segretario di Stato dell'aria, Sir Archibald Sinclair, e gli domandò se non si 'sentisse una voglia matta di rompere le ossa a tutti quei profughi'.
Per via gerarchica, dal capo di stato maggiore Sir Charles Portal, al suo vice Sir Norman Bottomley, l'ordine raggiunse Arthur Travers Harris, che trovò Dresda l'obbiettivo ideale. Lui e il suo socio americano James Doolittle avevano appena saputo che ai 630.000 abitanti di Dresda si era aggiunti mezzo milione di rifugiati".
Con l'aiuto dei loro soci d'affari statunitensi, la RAF uccise, in quattordici ore da cento a duecentomila civili innocenti; ma potrebbero essere anche di piú secondo la Croce Rossa internazionale di Ginevra. Il calcolo era reso impossibile dell'incenerimento di decine di migliaia di vittime e dalla presenza massiccia e non registrata di centinaia di migliaia di profughi tedeschi provenienti dall'est.
Grazie ai bidoni di fosforo e alle 650.000 bombe e spezzoni incendiari, il fuoco divenne rogo, la morte agonia, la distruzione incenerimento. Tutte le decine di migliaia di persone impregnate dal fosforo rovesciato a torrenti sulle case, sulle strade, in ogni angolo della cittá, persino all'interno dei rifugi erano diventate torce viventi
Dresda era cittá aperta, destinata all'accoglienza dei profughi e non era stata apprestata alcuna difesa. Gl'incendi arrostivano l'aria che, bruciando, provocava uragani di vento infuocato a duecento chilometri all'ora e alla temperatura di mille gradi.
Varie ondate di attacchi terroristici annientarono case, colonne di soccorso, ambulanze, pompieri. La cittá era piena di corpi appiccicati sull'asfalto, bruciati, carbonizzati, triturati, masse irriconoscibili, miseri mucchi di cenere, ossa e grasso.
Le fiamme si scorgevano sino a 200 chilometri di distanza mentre le ondate successive di caccia cercarono di terminare con cura il precedente lavoro dei bombardieri andando a mitragliare i gruppi di persone in fuga dalla cittá; bersaglio dei caccia statunitensi fu la folla che stava attraversando il giardino zoologico "Così trovò la morte la nostra ultima giraffa" raccontó il guardiano.
Dresda brució per sette giorni interi e la ricerca dei cadaveri duró piú d'un mese; non bastarono le fosse comuni a garantire sepoltura alle vittime; si dovettero allestire enormi pire al centro della cittá dove venivano accatastati migliaia di cadaveri informi che bruciarono per settimane e settimane.
Ad ereditare la devastazione provocata dai loro criminali utili idioti alleati occidentali arrivó l'Armata Rossa che poté così impadronirsi delle decine di migliaia di ori e preziosi trovati addosso ai morti e che la pignola burocrazia tedesca aveva minuziosamente inventariato.
Arthur Travers Harris ottenne il titolo di "Sir" nel 1953; di fronte alle accuse che provenivano anche dal suo paese, questo solerte macellaio rispose che la strategia terroristica dei bombardamenti era stata decisa dal governo e che lui s'era limitato ad obbedire agli ordini che provenivano dal ministero.
Le stesse parole che tanti sottufficiali e ufficiali della Wehrmacht opposero invano ai tribunali che li giudicarono per atti molto meno atroci ed osceni di quelli compiuti dai gangster volanti angloamericani.

fonti: Fernando Ritter "Fascismo e antifascismo, Milano, 1992; Piero Buscaroli "Dalla parte dei vinti", Milano 2010.

giovedì 10 febbraio 2011

SCURDAMMUCE O'PASSATO...

Il presidente Napolitano, nella pubblica commemorazione di oggi, dedicata alle vittime delle foibe, ha voluto precisare che "è giusto coltivare la memoria ma non bisogna rimanere ostaggi del passato, nè in Italia, nè in Croazia, nè in Slovenia".
Questa precisazione indica il grado di ipocrisia e di doppiezza morale di cui è infarcito il massimo rappresentante delle nostre istituzioni.
Ricordiamo le foibe peró non troppo; coltiviamo la memoria dei nostri italiani caduti in quelle terre ma senza esagerare.
Peccato peró che gli "eventi laceranti del passato" di cui non bisogna essere "ostaggi" ancora pesano sul presente: decine di migliaia di famiglie istriane e giuliano-dalmate, scappate in Italia dopo la guerra per non dover subire la miseria comunista furono poi espropriate dal governo titino di tutti i loro averi, case, officine, terreni.
E reclamano, invano, da sessant'anni il riconoscimento dei loro sacrosanti diritti: un indennizzo per il furto subìto; ma l'unica risposta della repubblica antifascista é stata la concessione di pensioni di guerra ai partigiani titini - che combatterono dalla parte giusta, ovviamente - mentre i militi della Repubblica Sociale - che difesero col sangue i confini orientali e quindi erano dalla parte sbagliata, ossia quella opposta rispetto al presidente Napolitano ed ai suoi amici, camerieri degli ex padroni sovietici - dopo la fine del conflitto si videro conferire le medaglie della fame, della disoccupazione, della disperazione quando andò bene, quella della persecuzione e della vendetta quando andò male; mentre i profughi scappati dalla furia slava vivevano in miseria dispersi in tutta l'Italia.
Mi fanno ridere quelli che dicono - ed in special modo quelli della parte nostra: basta nostalgismi, basta guardare indietro, conta solo il futuro.
Ragionano come Napolitano che dice così perché del suo passato ha di che ben vergognarsi.
E Slovenia e Croazia ringraziano perché di pagar dazio non ci pensano minimamente.
E, comunque, chi mai potrebbe volere vendette? Se anche uno le cercasse con chi se la potrebbe prendere se non con qualche rottame scampato alle statistiche della durata media della vita.
Non vendetta ma giustizia sì! giustizia vera, quella che non si prescrive mai e che impone, come diceva una massima del diritto "suum cuique tribuere", a ciascuno il proprio.
Non si possono resuscitare i morti, nè processare - oggi men che meno - i responsabili delle stragi (ci provò una quindicina d'anni fa un onesto e coraggioso pubblico ministero romano lasciato solo dalle istituzioni che non volevano grane); peró chiedere ed ottenere che chi s'é appropriato di cose altrui ne restituisca il corrispondente valore, quello sì; o anche questo significherebbe essere "ostaggio del passato"?
L'italietta nostra, timorosa imbelle ed insipiente, ebbe un' ottima occasione per regolare onestamente i conti ancora in sospeso: nel 2004 la Slovenia entró nella comunitá europea; al nostro governo sarebbe bastato opporre un consenso condizionato al riconoscimento delle ragioni economiche dei nostri esuli; sarebbe stato un atto di giustizia per i suoi figli derubati e un gesto di legittima espressione di sovranitá.
Sarebbe bastato farsi garantire dal governo sloveno che dalla sua accettazione - indispensabile per entrare nell'unione europea - dei principî propri dello stato di diritto doveva derivare anche la conseguente accettazione dell'obbligazione risarcitoria verso gl'italiani espropriati, per porre riparo ad una situazione d'oggettiva ingiustizia, contraria alle regole fondamentali d'uno stato di diritto.
L'Italia si guardò bene dal farlo e si guarderá bene dal farlo quando sará il turno della Croazia.
Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammuce u'passato...
Ma perché Napolitano non canta questa bella tarantella anche ad Israele e alle comunitá ebraiche che ancora percepiscono i risarcimenti di guerra?

mercoledì 9 febbraio 2011

NON SCORDO

Ripubblico un post di un anno esatto fa, dedicandolo al sacrificio dei combattenti della Repubblica Sociale nei nostri confini orientali e alle sofferenze degli istriani e dei giuliano-dalmati, massacrati dagli slavi e dimenticati dalle nostri classi politiche.

"BOIA CHI MOLA "

"Mona chi ghe crede, boia chi mola".
Questa la risposta, ironica ed impudente d'un anonimo bersagliere veneto del I^ battaglione volontari, poi chiamato "Mussolini", alla lettura da parte degli ufficiali dei comunicati incoraggianti emessi dagli alti comandi.
"Fesso chi ci crede ma boia chi molla"
Loro, quei bersaglieri, quei maró, quegli alpini, quei carabinieri, quei legionari, quelle Camicie Nere, quei militi della Confinaria e della Guardia di Finanza avevano perfettamente capito che non avrebbero potuto resistere tanto tempo alla pressione slava che premeva sui confini orientali d'una patria ormai perduta.
Sapevano che gli "alleati" tedeschi, resi furiosi dal voltafaccia badogliano, ormai consideravano quelle terre - a cui avevano imposto un'amministrazione chiamata "Supremo Commissariato per la zona di operazioni del Litorale Adriatico" da loro presieduta - una merce di scambio, pronta ad essere barattata per assicurarsi la lealtá dei loro alleati slavi.
Cosicché i nostri soldati non solo dovevano affrontare un nemico crudele che non faceva prigionieri ed era temibile per la sua efferatezza ma dovevano guardarsi le spalle da pretesi alleati pronti a sabotarti.
Le cose vanno dette senza reticenze.
Il tedesco, eroico nella resistenza contro gli alleati angloamericani e nell'urto contro le orde sovietiche, spesso si comportó male con noi in quelle terre di confine che separavano la civiltá dalla barbarie.
* * *
Quando le stazioni radio diffusero l'8 settembre il comunicato dell'EIAR che annunciava la fine della guerra a Trieste nessuno si fece illusioni perché lì sapevano che i problemi affrontati fino ad allora, razionamenti, bombardamenti, angoscia di madri e spose, si sarebbero moltiplicati.
E così fu: da un lato Ante Pavelic, appoggiato dalla Germania dichiarava guerra all'Italia rivendicando alla Croazia tutti i territori della costa adriatica, dalmata, Zara inclusa; dall'altro, contemporaneamente, i partigiani titini, appoggiati dai comunisti italiani, occupavano l'Istria proclamandone l'annessione alla Jugoslavia.
Le truppe italiane, diversamente da quelle tedesche, erano state colte di sorpresa dall'annuncio dell'armistizio, e il loro sbandamento favorì l'occupazione di Gorizia da parte delle bande titine, spalleggiate dai partigiani italiani.
Furono tre giorni di saccheggi, di violenze e di terrore, preludio a quanto sarebbe accaduto dopo la fine della guerra.
L'11 settembre cadeva anche Spalato e per diciassette giorni le bande comuniste ebbero mano libera; i tribunali popolari che condannavano a morte gl'italiani erano presieduti da un ex barbiere spalatino di nome Janos Papo, divenuto commissario del popolo; questo individuo dettava personalmente l'elenco degli italiani da sopprimere; li dettava perché era analfabeta.
Tutta l'Istria e la Dalmazia, fatte salve Zara, Pola e Fiume, subirono in quel dopo armistizio la barbarie slavo-comunista.
* * *
Nell' ottobre del '43 i primi reparti inquadrati nella RSI che giunsero a Gorizia furono i volontari bersaglieri del I^ battaglione; essi tennero un fronte di venticinque chilometri fino alla fine della guerra; addirittura alla fine di maggio del 1945 erano ancora attivi presidi di soldati che continuavano a combattere.
Erano operai, impiegati, borghesi, liceali, accolti in tutte le cittá giuliano dalmate come difensori della patria.
Fino alla fine delle ostilitá migliaia di soldati persero la vita, in combattimento ma soprattutto in agguati e solo il collasso della Repubblica Sociale permise alle bande di Tito di impossessarsi delle cittá italiane; il primo maggio del 1945 i primi reparti delle truppe slave entrarono a Trieste.
Quel giorno Togliatti, ministro del governo provvisorio, da Roma invió ai triestini il seguente messaggio: "Nel momento in cui giunge notizia che le truppe di Tito sono entrate nella vostra cittá inviamo a voi lavoratori il nostro fraterno saluto. Il vostro dovere é di accogliere le truppe di Tito come liberatrici e di collaborare con esse nel modo piú stretto".
In ogni cittá occupata dagli slavo-comunisti iniziarono a funzionare i tribunali del popolo: eccidi, deportazioni, infoibamenti.
Interi libri sono stati scritti per ricordare gli orrori che i nostri soldati ma anche i civili, le donne, i vecchi e i bambini subirono da quella marmaglia senza umanitá.
Nessuno a Roma, anche negli anni successivi alla guerra, si preoccupo´dei nostri prigionieri: Per il governo non erano italiani degni d'attenzione.
Soltanto nel 1947 gli slavi si determinarono a rimpatriare quei pochi prigionieri ch'erano sopravvissuti all'inferno dei campi di detenzione.
* * *
La prima autoritá della repubblichetta italiana che si degnó di visitare ufficialmente la foiba di Basovizza fu l'allora presidente Francesco Cossiga, nel 1991; ma fu la generositá dell'uomo o il calcolo politico ? Difficile sbagliarsi.
Mai come in quegli anni i comunisti o ex-comunisti pidiessizzati erano giunti al punto piú alto della loro lontananza dal potere che neppure piú arrivavano ad annusare, chiusi dall'asse pentapartitico e resi orfani dalla dissoluzione dell'impero sovietico.
Fu dunque la situazione di debolezza dell'ex pci a favorire quel gesto; lo smembramento dell'ex Jugoslava fece il resto.
La riprova?
Là dove non s'è ancora incrinata la forza di potere del sistema comunista o post-comunista, che ha generato favoritismi ed omertá, tante figlie, tante sorelle e tante mogli ancora oggi, dopo sessantacinque anni, non sanno dove riposano i resti dei loro padri, dei loro fratelli, dei loro mariti, in quelle terre maledette della bassa bolognese che videro dopo il quarantacinque scatenarsi la furia delle iene e degli sciacalli, degni emuli dei loro compagni titini, dopo che i leoni erano stati abbattuti.
Perché é bene ricordare che fin quando c'erano i leoni iene e sciacalli stavano rintanati.
Finito anche il tempo delle iene e degli sciacalli giungeva l'ora degli avvoltoi: quelli che consideravano gl'infoibamenti, le deportazioni e le violenze contro i giuliano dalmati una reazione slava all'occupazione italiana.
Poi qualcuno, dall'alto della sua sicumera, colla puzzetta sotto il naso e la kippah in testa dichiarava che quello della Repubblica Sociale era stato il periodo piú oscuro della storia italiana, e così sputava sulle tombe e sulle ossa insepolte di coloro che avevano difeso col sangue lembi della nostra terra, quelli che avevano mostrato alle iene e agli sciacalli che finché c'erano loro di là non si passava.
Era arrivata l'ora dei vermi.

martedì 8 febbraio 2011

BERNARD LUGAN : RIFLESSIONI SULLA CRISI EGIZIANA

Pubblico, tratto dal sito www.realpolitik.tv e tradotto dal francese, un articolo di Bernard Lugan, uno dei massimi esperti africanisti.
La sua analisi, che non entra - né lo vuole - nella valutazione delle cause ultime della crisi è nondimeno attenta nello svelare i luoghi comuni che, anche in questa occasione, hanno riempito le cronache dei drammatici avvenimenti che stanno sconvolgendo l'Egitto.
E dovrebbe far riflettere chi si schiera incondizionatamente dalla parte della piazza anti-Moubarak, dimenticando che la posta in gioco non é solo l'elevazione materiale di una fetta certo considerevole del popolo ma interessi geopolitici che si agitano, e neanche tanto in profonditá, dietro la facciata della lotta per la "libertá".
A cominciare da quelli del fondamentalismo islamico, di cui si fanno portatori, con dovuta cautela, i fratelli musulmani, fino a quelli degli Stati Uniti dove non da oggi si va auspicando la liberalizzazione di circa la metá delle attivitá del paese, gestite in maniera statalistica dall'esercito.
E giá sappiamo per esperienza che dietro quella parolina magica "democrazia", davanti alla quale tanti cadono estasiati, si agitano spesso e volentieri gl'interessi piú torbidi ed inconfessabili.

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BERNARD LUGAN : RIFLESSIONI SULLA CRISI EGIZIANA
Dopo la Tunisia, l'Egitto s'è dunque infiammato . Dimenticando la massima « né biasimo né lodo, racconto », questa regola d’oro della loro professione, i giornalisti si sono fatti per l'ennesima volta i portavoce dei manifestanti. Letteralmente spasimando davanti alle loro azioni, non si sono risparmiati aggettivi superlativi nel descrivere il «popolo» egiziano unanimemente rivoltato contro il « dittatore » Moubarak.

Tutto s'è capovolto nel loro piccolo e limitasto universo di certezze ed approssimazioni quando i partigiani di Moubarak sono a loro volta scesi nella strada; e in massa. C'erano dunque "due popoli" !!! Questa constatazione aveva di che turbare le loro coscienze formattate. Per un breve lasso di tempo la spiegazione è stata peró facile : i contromanifestanti erano dei poliziotti e degli sbirri prezzolati ; poi - orrore ! - scoprirono che si trattava d'abitanti venuti dai quartieri piú poveri.

Così dunque, i piú indigenti osavano guastare la grande celebrazione democratica di cui i giornalisti erano venuti a fare i portavoce. Anzi, piú ancora, questi miserabili osavano, crimine dei crimini, prendersela coi giornalisti, ignorando che in Francia, questa intoccabile casta costituisce uno Stato nello Stato davanti al quale salgono e si prostrano i piú potenti. Avranno almeno ricordato del loro soggiorno al Cairo che sulle rive del Nilo i punti di riferimento non sono quelli delle rive della Senna e che i viaggi sono ben piú formativi che le scuole di giornalismo.

Questi ignoranti non hanno visto che la vita politica egiziana è organizzata attorno a tre grandi forze. La prima, quella che manifesta domandando la partenza del presidente Moubarak e per la quale hanno gli occhi così dolci, è, come in Tunisia, composta da persone che non soffrono la fame ; si tratta in qualche modo dei «privilegiati » che possono offrirsi il lusso di rivendicare la democrazia. La seconda è quella dei Fratelli Musulmani ; perseguitati da decenni e oggi riparata dietro gli utili idioti di turno, questa organizzazione tenta di reintrodursi nello scacchiere politico per imporre la sua legge. La terza forza di cui nessun « inviato speciale » ha mai inteso parlare è quella che vive nei quartieri sfavoriti - lontano dunque dall'hotel Hilton, spartano quartier generale dei giornalisti "battaglieri" - o nei miserabili villaggi della valle del Nilo, lontano dagli occhi dei turisti. E' quella dei fellahs sottopagati, di questo piccolo popolo nasseriano dal patriottismo a fior di pelle che disprezza al tempo stesso la borghesia cosmopolita che occhieggia verso Washington e i barbuti che vorrebbero riportare l'Egitto al X^ secolo. Sono quegli uomini che sono volati al soccorso del Rais Moubarak nel quale vedono, a torto o a ragione, non é questo il punto, un successore, sia pur lontano, del colonnello Nasser.

Ultima nota : mentre la classe poliktica francese (ma non solo quella: ndt) intimava il presidente Moubarak di lasciare il potere, il presidente russo Medvedev teneva un lungo colloquio telefonico con lui, assicurandogli ch'egli si sarebbe opposto contro le ingerenze straniere. Da una parte i cani di Pavlov che alzano la zampa secondo l'aria che tira e dall'altra un uomo di Stato che ben conosce le sottigliezze dell’ «oriente misterioso »

Bernard Lugan
www.bernard-lugan.com/
Autore di "Histoire de l’Égypte des origines à nos jours" Éditions du Rocher, 2002.

Universitario africanista, Bernard Lugan affronta le questioni africane sul lungo periodo partendo da dati reali, cioé la terra e gli uomini. Per lui, occorre parlare delle Afriche e non del’Africa, e degli Africani, dunque dei popoli e delle etnie, e non dell’Africano, espressione tanto vaga quanto riduttrice. Dopo piú di trent'anni d'esperienze di territorio e d'insegnamento universitario in Africa, egli fu in particolare professore per dieci anni presso l’università nazionale del Rwanda, conduce attualmente molte attivitá : edizione d’una rivista africanista diffusa su internet (www.bernard-lugan.com), direzione d’un seminario al CID (Scuola di Guerra), consigliere presso societá che operano in Africa. Egli è del pari esperto per l’ONU presso il TPIR (Tribunale Internazionale per il Rwanda) che ha sede a Arusha, in Tanzania.

lunedì 7 febbraio 2011

I "MODERATI"

Quando sento la parola "moderati" , parafrasando una famosa espressione uscita tanti tanti anni fa dalla bocca d'una vecchia conoscenza, la mano mi corre subito ...alla tastiera per scrivere proprio quello che scrivo adesso.
Procediamo con ordine.
Dicesi "moderata" quella massa di milioni d'italiani, sicuramente maggioritaria, che pratica idee di comune buon senso nella sfera dei rapporti umani e sociali e dei problemi essenziali che ogni giorno s'affrontano.
Moderato dovrebbe essere colui che ragiona a mente fredda e non sotto l'effetto dell'ebollizione del sangue ma non solo; moderato è colui che cerca di trovare un accomodamento (più o meno onorevole) rifuggendo le soluzioni estreme, ritenendo che ogni cambiamento radicale, per quanto sbagliata possa apparire la situazione esistente, porti con sè inaccettabili ripercussioni negative; e questo sia nelle scelte politiche sia nell'ambito privato dei propri affari personali.
Moderato starebbe a significare pacato, pacifico, aperto al dialogo, accomodante, pronto ad un equo componimento.
Ma a tutto ció, all'aspetto "esterno", "sociale" e "politico" di codesto atteggiamento dovrebbe corrispondere, coerentemente e per non cadere nella schizofrenia, anche un aspetto interiore capace di dar riflesso di sè in ogni condotta esteriore.
Ció che si puó riassumere in un'espressione: sobrietá; sobrietá in ogni aspetto della propria vita; il che necessariamente porta al disprezzo della volgaritá, degli eccessi, dell' ostentazione del lusso e della ricchezza, dello schiamazzo, dell'accaparramento, dell'aviditá, della vanagloria.
Ció a cui corrisponde, in senso affermativo, il rispetto delle forme, la cortesia, la prudenza in ogni scelta e in ogni atteggiamento, l'accontentarsi di ció che é giusto e conforme alle proprie qualitá umane e lavorative, un costante confronto colle situazioni altrui al fine di valutare piú onestamente la propria ossia il vero senso di giustizia.
Nell'antichitá greca il superamento dei limiti della decenza e della sobrietá, detto "hybris" , era cosa inammissibile perché comportava la rottura dell'armonia e dell'equilibrio e per questo provocava la furiosa reazione degli dei.
L'Iliade e l'Odissea, i poemi fondanti della civiltá europea, testimoniano le punizioni divine contro coloro, anche eroi e coraggiosi, che s'erano macchiati di eccessi ed ingiustizie.
Nella Roma repubblicana era bandita, e punita, ogni ostentazione di ricchezza; perfino la famiglia patrizia non poteva possedere arredi in argento se non quelli necessari allo svolgimento dei riti sacri; e la sobrietá imperava anche post mortem tanto che i monumenti sepolcrali erano ridotti all'essenziale e non era ammessa la collocazione di vasellami o di altri oggetti di valore a fianco della tomba del defunto.
La carriera pubblica era caratterizzata dall'impersonalitá perché l'educazione che i romani ricevevano dai loro padri li determinava a indirizzare la propria ambizione non giá alla gloria personale ma all'interesse superiore della patria; e la scarsa varietá dei nomi propri - a vantaggio dell'uso del nome del casato - testimonia ancor piú il carattere austero e misurato della prima vera civiltá italiana.
* * *
Il punto di riferimento di lorsignori "moderati" italiani oggi si chiama Silvio Berlusconi. Si fa fatica ad intravedere in quest'uomo anche una sola briciola di quel "modus" che non solo significa "misura" ma é anche la radice etimologica di quella parolina di cui ci stiamo occupando.
E non é solo il premier e la sua patologica dismisura nella propria sfera pubblica e privata - che neppure v'è bisogno di commentare; sarebbe troppo facile - ad evidenziare quell'anomalia; non ci sta solo lui ma tutta la sua claque di parlamentari e di ministri ed il loro comune atteggiamento a smentire quella "moderazione" ch'essi pretendono di rappresentare.
Neppure c'é bisogno di aggiungere verbo alle scelte politiche "smoderate" - perché prive di "modus" e di misura - di questa classe di "moderati" ; é sufficiente fermarsi prima, all'aspetto antropologico: confrontate gli stipendi che si sono garantiti con quelli dei loro colleghi stranieri e, soprattutto, con quelli dei lavoratori italiani; guardate come sgomitano per partecipare ad un talk-show dove poter profferire qualche idiozia; osservate come si sbranano fra di loro per una candidatura, per un posticino, per un assessorato; controllate la frequenza delle loro presenze in parlamento o nelle assemblee elettive, il livello medio di competenza e di preparazione, il loro comportamento pubblico (e spesso anche privato), il loro linguaggio, la loro indipendenza di giudizio, la loro serietá, il rispetto degl'impegni assunti con chi li ha votati.
E' per questo che non si può essere pagani.
Se gli dei davvero esistessero li avrebbero giá fulminati da un pezzo.