venerdì 23 dicembre 2011

LA CRISI ISRAELE-TURCHIA E LE CONSEGUENZE REGIONALI

La crisi Israele-Turchia e le conseguenze regionali (Medio-Oriente, Unione europea)
di Aymeric Chauprade
La Turchia, nella prospettiva di diventare membro della NATO (vi fu ammessa nel 1952), è stato il primo paese musulmano a riconoscere Israele nel 1949. Essa fu, per tutto il corso della guerra fredda, una fortezza militaire del dispositivo americano in Eurasia. All'inizio degli anni novanta, la geopolitica americana le offrì un ruolo ancora più importante : divenire la potenza tutelare d’un grande Medio Oriente americano, continuare a sostenere Israele contro il nazionalismo arabo, impedire la formazione d’una Europa potenza indipendente attraverso la sua integrazione nell’Unione europea, contenere l'influenza della Russia nel Caucaso e nell' Asia centrale turcofone, sostenere il separatismo degli Ouïghours nel Turkestan cinese e infine aiutare Washington, a detrimento di Mosca, a controllare le vie di passaggio del petrolio e del gas dal mar Caspio e dall’Asia centrale.
Ma, nel corso degli anni 1990, apparvero i primi segni anticipatori che una Turchia islamista non si sarebbe lasciata rinchiudere nel ruolo d'alleato geopolitico degli Stati Uniti. Necmetin Erbakan e il suo partito (Refah) che tentava all'interno una rottura radicale col kemalismo, manifestò all'esterno la propria ostiità all’Occidente (« Noi non siamo occidentali, noi non siamo europei ») ed a questo « club cristiano sotto influenza massonica » che costituiva ai suoi occhi l’Unione europea.
Ahmet Davutoglu, il brillante ministro degli affari esteri d’Erdogan è oggi il difensore più emblematico di questo nuovo atteggiamento turco nelle relazioni internazionali, fondato sullo « choc delle civilizzazioni ». Rompendo con la politica dello Stato-Nazione e riprendendo l'idea d'impero, Davutoglu mira alla restaurazione dello splendore ottomano. E tutto ciò passa, almeno apparentemente, attraverso il sacrificio della relazione con lo stato d' Israele.
Dieci anni dopo gl'importanti accordi bilaterali di difesa tra Tel-Aviv ed Ankara, dunque a partire dal 2006 e la vittoria elettorale dell’AKP, il partito islamista turco, le relazioni fra i due paesi cominciano a complicarsi. In quell'anno la Turchia decide d'accogliere il dirigente di Hamas Khaled Mechaal. Il 30 gennaio 2009, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, a Davos (Svizzera), si rivolge bruscamente al presidente israeliano Shimon Peres sulla questione di Gaza. L' 8 aprile 2010  lo stesso Erdogan qualifica Israele come « principale minaccia per la pace in Medio-Oriente ». Il 17 maggio 2010, Israele attacca pesantemente l’accordo sul nucleare firmato da Iran, Turchia e Brasile. Poi, nello stesso mese accade l'episodio della "flottiglia umanitaria" che cerca di rompere l’embargo su Gaza e dove alcuni turchi vengono uccisi. Il 31 maggio 2010, la Turchia richiama il proprio ambasciatore e avvisa Tel-Aviv di conseguenze irreparabili nelle relazioni bilaterali. A partire da questo momento, i rapporti tra i due alleati strategici volgono al peggio. Israele rifiuta di scusarsi (per non esporre i suoi militari a conseguenze giudiziarie) e la Turchia si ostina a pretendere scuse e riparazioni finanziarie. All'inizio di settembre 2011, la Turchia espelle l'ambasciatore d'Israele mentre Erdogan minaccia di fare scortare militarmente le navi turche che volessero raggiungere Gaza. Israele è anche accusata dal premier turco di mancanza di lealtà nell' applicazione degli accordi di difesa ; secondo lui, gli israeliani si rifiuterebbero di restituire i droni venduti ai turchi che si trovano in manutenzione presso di loro. Il 6 settembre 2011, il primo ministro turco annuncia la rottura degli scambi militari. Israele si rivolge allora alla Romania e alla Grecia alla ricerca di aree militari d'addestramento. Da parte sua, la marina turca riceve l'ordine d'essere più « attiva e vigilante » nel Mediterraneo orientale. Israele, che tiene al suo alleato turco e teme l’isolamento nel Medio-Oriente, tenta di calmare i turchi senza peraltro cedere alle loro pretese di scuse.  Ehud Barak non smette di riaffermare la propria amicizia verso i turchi e di avvertire che la crisi non è che passeggera. I turchi rifiutano l'insistente mediazione americana e moltiplicano le dichiarazioni di sostegno ai palestinesi e di condanna della minaccia nucleare che rappresenterebbe Israele nel Medio Oriente (Erdogan stigmatizza ancora il pericolo della forza nucleare israeliana, il 5 ottobre 2011, in Africa del Sud), accogliendo ultimamente une decina di detenuti palestinesi scarcerati in cambio della liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit.
La questione che si pone è dunque la seguente : la Turchia degli islamisti sta veramente per spezzare la solida alleanza stretta durante il regime kemalista? Apparentemente tutto sembra indicarlo. Ciò nonostante, molti elementi contraddicono questa apparenza. In primo luogo, gli scambi commerciali non hanno smesso di crescere fra Israele e la Turchia dall’importante accordo di libero-scambio sottoscritto tra i due paesi nel 1997, e sono rimasti molto forti anche dall'inizio del 2011. In secondo luogo, sul piano geopolitico, la strategia neo ottomana elaborata da Ahmet Davutoglu si rivolge ben più contro l’influenza dell’Iran, dell’Egitto e dell’Arabia Saudita nel mondo arabo che contro Israele. Con le primavere arabe e la ricomposizione del Medio-Oriente, si gioca una partita silenziosa ma intensa tra le potenze arabe sunnite, il polo iraniano e il polo turco. Israele e Turchia restano uniti dalla stessa volontà di bloccare i rifornimenti d’armi iraniane alla Siria. La Turchia disputa all’Iran, all’Egitto e all’Arabia Saudita la loro influenza sui palestinesi di Gaza. Ankara tenta d'imporsi come modello di « governo islamico saggio » difeso dai Fratelli musulmani in numerosi paesi arabi sunniti. Niente vieta dunque l'ipotesi d’una commedia di facciata tra israeliani e turchi, che obbedisca agli obbiettivi comuni di contenere l’influenza dell’Iran e dell’Arabia Saudita e di far sì che l’Egitto mantenga il trattato di pace con Israele favorendo l'emergenza d’un governo debole incapace d'intraprendere iniziative politiche di peso . Ed allora la domanda :  continuità o rottura ? Stando alle parole e agli atti diplomatici, la seconda ipotesi sembrerebbe evidente. Ma nelle strategie d' "intelligence", delle attività occulte e delle finalità geopolitiche profonde, nulla è meno sicuro.
La nostra ipotesi è che la nuova politica neo ottomana avrà maggior impatto sul posizionamento turco rispetto ai progetti degli europei, dell’Unione europea, dell’Unione per il Mediterraneo, che con riguardo ad Israele. L’Unione per il Mediterraneo non esiste più dalla fine dei regimi di Moubarak e di Ben Ali poiché essa si fondava sostanzialmente sulle relazioni personali de dei due presidenti con il presidente francese. Quanto all’Unione europea, presa dalle sue importanti contraddizioni economiche (differenze di livello economico tra i suoi membri) essa non può più ormai concedersi il lusso d'aggiungerci le proprie contraddizioni geopolitiche (la Turchia non appartiene alla civilizzazione europea). Se l’Unione sopravviverà alla crisi attuale, probabilmente si rifonderà su basi economiche e geopolitiche più coerenti. Occorre dunque guardare la Turchia come un grande paese emergente che, come il Brasile, farà sempre di più una politica propria e cercherà di giocare la carta del neo ottomanesimo verso i sunniti del mondo arabo, proponendosi in particolare come Islam « saggio», in opposizione al wahhabismo saudita, e che svolgerà un ruolo di mediazione in Asia centrale e in Iran. La raffinatezza del gioco turco dovrebbe implicare che sia mantenuta, anche in maniera sotterranea, e dietro la facciata dell’ideologia islamica e pro palestinese, la carta strategica israeliana.

martedì 20 dicembre 2011

IL SECOLO DELLE BANCHE

André Gandillon, Rivarol 9.12.2001

Quando vogliamo comprendere la crisi finanziaria e, quindi, economica, appare insufficiente attenersi agli aspetti tecnici e teorici del problema. E' indispensabile conoscerne le sfaccettature storiche e politiche.

LA CRISI DEL 1908 NEGLI STATI UNITI E LE SUE CONSEGUENZE

Dobbiamo allora tornare un secolo indietro negli Stati Uniti. Dal 19º secolo, e nei manuali d'economia, si distinguono nella teoria le "banche d'affari" (o "Alte banche") che conducono delle operazioni finanziarie col loro danaro e le "banche di deposito" che fanno lavorare il danaro della loro clientela. Tuttavia, dal 1913, colla creazione del sistema di Riserva Federale degli Stati Uniti (o Fed), questa distinzione ha avuto sempre meno ragion d'essere poichè le banche d'affari hanno progressivamente dominato le banche di deposito e, oltre alla loro attività speculatrice, si sono autoconcesse il privilegio quasi esclusivo della creazione monetaria, spossessandone gli Stati (soprattutto dopo la soppressione del Glass Steagall Act nel 1980 che, dal 1933, separava banche di deposito e banche d'affari) e, conseguentemente, disputando loro la sovranità politica.
Che è successo allora negli Stati Uniti? Le crisi finanziarie degli anni 1873, 1893 e 1907, provocate dalle trame d'avventurieri della finanza, anzi di banchieri internazionali che a quel tempo operavano da Londra, avevano fatto sorgere la necessità di creare una banca centrale di riserva negli Stati Uniti che ne erano privi da quando nel 1836 il loro presidente Andrew Jackson non aveva rinnovato l'autorizzazione alla - così si chiamava - "Second Bank of United States" che riceveva in deposito i fondi federali.
Durante la crisi del 1893-1895, il fallimento statunitense era stato evitato da John Pierpont Morgan, il più importante banchiere ed industriale degli Stati Uniti appoggiato ad un gruppo di banchieri europei, operazione che aveva portato nelle loro casse 16 milioni di dollari d'interessi a fronte d'un prestito di 65 milioni di dollari. Nel 1907, Morgan, più potente che mai fu di nuovo chiamato al soccorso e per la seconda volta ristabilì la situazione con l'aiuto di John D.Rockfeller e di Lord Rothschild. J.P.Morgan era l'erede di Junius Morgan che aveva ripreso in mano la banca Peabody creata negli anni 1820-1830 da George Peabody col concorso del barone Nathan Mayer Rothschild di Londra.
La necessità d'una banca centrale si fece dunque più pressante che mai.

LA CREAZIONE DELLA FED

I banchieri privati, in posizione di potenza, fecero in modo che l'indispensabile riforma bancaria di cui avevano bisogno gli Stati Uniti si realizzasse a proprio vantaggio.
Una "Commissione monetaria nazionale" (CMN) presieduta da Nelson Aldrich, capo della maggioranza repubblicana al Senato, fu costituita per redigere un progetto di banca di riserva nazionale. Orbene, nel novembre 1910, Aldrich convocò al club di Jekyll Island, sulla costa della Georgia, una conferenza che fu tenuta segreta radunando i più eminenti finanzieri americani in vista di elaborare quel progetto. La testa pensante, data la sua competenza tecnica, fu Paul Warburg (rappresentante della Kuhn, Loeb & Co.) proveniente dalla Germania e da poco naturalizzato americano.
Il progetto fu strutturato in maniera tale che la banca di riserva fosse anche una banca d'emissione i cui amministratori dovevano essere designati dal presidente americano e sottoposti all'approvazione del Congresso (camera dei rappresentanti e Senato).
Tutto ciò era però anticostituzionale poiché secondo l'articolo 1, sezione 8 par.5 della Costituzione, solo il Congresso possiede il "potere di battere moneta e regolarne il valore", ciò che vale ad escludere ogni istituzione bancaria indipendente.
Non soltanto la futura banca poteva battere moneta ma il potere legislativo - dunque lo Stato federale - era spossessato di fatto del proprio potere sovrano monetario.
Fu inoltre prevista la costituzione d'un sistema di banche di riserva regionali (dodici nel progetto definitivo) che formassero la Riserva federale, allo scopo di mascherare il potere di fatto che deteneva la Riserva federale di New York, dove erano accentrati i principali banchieri degli Stati Uniti.
Le azioni di ciascuna delle dodici banche di riserva - che si dividevano senza limiti territoriali i 48, e poi 50, stati federati - erano in possesso delle banche locali che ne erano divenute socie ma in pratica, dato il peso della sua capitalizzazione e quello dei suoi azionisti, contava in misura preponderante la sola banca di riserva federale di New York.
Inoltre, gli amministratori della banca sfuggivano sostanzialmente al controllo del potere politico attraverso un'ingegnosa organizzazione che ne manteneva però le apparenze. Per esempio il mandato dei membri del "board" poteva durare fino a 14 anni, ossia quanto tre mandati presidenziali.
Il rapporto finale della CMN apparve l'11 gennaio 1911. Dopo lunghe discussioni ed i ritardi dovuti all'elezioni presidenziali del 1911 che videro la vittoria di Woodrow Wilson, il 22 dicembre 1913 fu votata la legge Glass che creava il sistema di Riserva federale (Federal Reserve Act), firmato con una eccezionale celerità il 24 dicembre 1913 da Wilson. Ciò era stato reso possibile, nonostante le resistenze di qualche parlamentare che aveva visto giusto, per le discrete e capaci influenze dei circoli finanziari newyorkesi, l'apparente complessità della questione e l'indifferenza del popolo americano.
Nell'occasione, il deputato Charles Lindbergh riassunse lo spirito della legge (New York Times del 21 dicembre 1913) dichiarando alla Camera dei rappresentanti che "questa legge stabilisce il trust più potente della terra".
Tra gli azionisti vi erano: Goldman Sachs, City Bank, National Bank of North America (filiale della Westminster Bank), Kuhn & Loeb e Lehman Brothers (fatta a pezzi dai suoi concorrenti nel 2008), il gruppo Chemical Bank Morgan Chase Bank (nato dalla fusione Morgan GT e Chase Manhattan Bank.
Nel luglio del 1914, nell' Indipendent, Nelson Aldrich confermò le parole di Lindbergh: "Prima del voto di questa legge, i banchieri newyorkesi non potevano dominare che le riserve di New York. Ora, noi possiamo dominare le riserve bancarie di tutti gli Stati Uniti".
In effetti, gli Stati Uniti disponevano d'una banca centrale, però detenuta da azionisti privati che assicuravano in ultima battuta il finanziamento dell'Unione. A quell'epoca anche la banca di Francia aveva azionisti privati - le duecento famiglie fondatrici del Primo Impero - ma era però sottomessa al controllo dello Stato.
Inoltre, tra gli azionisti della Riserva federale di New York figuravano delle banche estere, filiali di banche europee, principalmente londinesi, come la banca Rothschild. La Fed rappresentava dunque - e rappresenta oggi - degli interessi che superano largamente quelli degli Stati Uniti, tanto importante è il legame tra Wall Street e la City.
Così gli Stati Uniti dispongono ancora oggi d'una banca centrale i cui azionisti sono privati, percepiscono una rendita dai crediti accordati con interessi agli agenti economici, ne controllano le risorse finanziarie ed il loro impiego per concedere crediti agli stati esteri.
L'emendamento Edge del 24 dicembre 1919 rafforzerà quest'ultima facoltà autorizzando le banche nazionali a creare delle società in vista di eventuali iniziative creditizie internazionali, in oro o in titoli.

IL DEBITO, FONTE DI POTENZA

Ormai il debito diveniva la base della creazione monetaria: è questo sistema che si è generalizzato a tutto l'Occidente a partire dagli anni 1970-1980, gli Stati affossando la propria sovranità monetaria e inibendosi l'autofinanziamento per non ricorrere che al prestito sui mercati finanziari. Coloro che detengono questo potere di creazione monetaria ex nihilo possono controllare il mondo specialmente se, non contenti di finanziare il settore privato, agiscono in tal modo anche in quello pubblico.
Disponendo d'un tale potere, appoggiato ad una economia divenuta la più potente del mondo (a dispetto del suo attuale declino), era naturale che questo gruppo di qualche decina di persone cercasse di estenderlo ai limiti del mondo economico planetario; ciò che noi cerchiamo di ritracciare a grandi linee attraverso l'esposizione di alcuni fatti salienti.
La Grande Guerra permise a questi banchieri d'estendere la loro potenza attraverso il finanziamento dei belligeranti, essenzialmente gli Stati dell'Intesa ma anche il Reich e la Russia bolscevica. Wilson stesso inviò in Russia Elihu Roth con 100 milioni di dollari tratti dal Fondo Speciale d'Urgenza di Guerra al fine di evitare lo scacco del regime leninista. D'altronde, a partire dal 1917, durante la guerra egli consegnò il governo di fatto degli Stati Uniti ai suoi finanzieri: Bernard Baruch, che presiedette il Consiglio delle industrie di guerra, Eugene Mayer, che diresse la Società di finanziamento della guerra, mentre Paul Warburg organizzava questo finanziamento.
La guerra 1914-1918 diede agli Stati Uniti lo statuto di nazione creditrice del mondo, soppiantando allora la Gran Bretagna e facendo del dollaro il riferimento mondiale.
Dopo la guerra, nel 1920, i banchieri newyorkesi precipitarono l'agricoltura nella crisi, contraendo bruscamente il credito, allora in imprudente espansione, accordato agli agricoltori che avevano sviluppato la loro prosperità durante la guerra, creando milioni di disoccupati, e ciò allo scopo di colpire le banche locali degli Stati, i cui attivi riposavano sul capitale fondiario della "provincia profonda", che avevano rifiutato sino ad allora di cedere. Era stato sufficiente al riguardo rialzare rapidamente il tasso di sconto della riserva federale, mentre gli industriali beneficiavano di crediti agevolati che consentirono loro d'evitare gli effetti di questa misura.

LA CRISI DEL 1929

Lo stesso accadde per la crisi del '29. Certamente una bolla speculativa s'era sviluppata nel corso degli anni 1926-1929, favorita da un rapido sviluppo economico, mentre le rendite distribuite dalla produzione crescevano meno velocemente che questa, alimentando la richiesta di credito necessaria a smaltirla.
Già l'economia agli inizi del 1929 dava segni di stanchezza, in particolare perché i capitali disponibili erano investiti nella speculazione piuttosto che nell'economia produttiva, questa offrendo maggior redditività: tra maggio ed ottobre 1927, la produzione industriale s'era abbassata del 7%.
Tuttavia i banchieri centrali furono la causa della gravità della crisi. Negli anni 1926-1928, i tassi d'interesse ufficiali, quelli della FED - e ciò in accordo con la Banca d'Inghilterra diretta da Sir Montagu Norman stabilitosi allora a Washington, -erano rimasti bassi ed i prestiti concessi in abbondanza, coll'approvazione del governo, questo mentre l'economia cominciava ad accelerare in maniera forsennata e le dichiarazioni governative incoraggiavano la popolazione a piazzare i propri risparmi nel sistema borsistico. Era divenuto certamente necessario rallentare la corsa ma i banchieri centrali fecero in modo che ciò non li svantaggiasse. Ed è così che a partire dalla primavera del 1929, la FED aumentò rapidamente i suoi tassi, che già aveva iniziato a far risalire lentamente dal 1928.
Ciò non poteva avere che l'effetto di strangolare senza pietà un'economia surriscaldata. Tuttavia questa politica fu lanciata in maniera discreta, mentre le banche, parti essenziali della FED, avevano delle liste preferenziali di persone informate in anticipo delle manovre speculative e tra le quali figuravano banchieri, amici, industriali, parlamentari, dirigenti, società straniere etc etc.
Pratiche correnti, si obietterà: ma che mostrano chiaramente che la politica economica di certuni non corrisponde a quella di tutti e, soprattutto, all'interesse nazionale dei popoli.
Al di fuori delle cause puramente tecniche, vi sono cause di natura particolare complicate dall'imprevedibilità degli avvenimenti che neppure i cervelli meglio organizzati potrebbero gestire.
La crisi del'29, come quella scatenatasi nel 2008, vi trova le sue cause profonde. Così, tra altri fattori, è facile interrogarsi sulla riunione dei dirigenti della FED del 20 aprile 1929, il cui contenuto non è stato reso pubblico, nel momento in cui a partire da essa si mette in marcia la politica di penuria monetaria sul mercato a breve termine di New York e nello stesso momento in cui gli "iniziati" convertono le loro azioni sopravvalutate in titoli di Stato all'evidente scopo di tutelarsi.
Nell'agosto del 1929 il tasso era già salito al 6%. Ma quando il tasso d'interesse passa brutalmente al 20% si arriva alla catastrofe: è ciò che si produsse in occasione del celebre "giovedì nero" del 24 ottobre 1929 .
Nel suo numero del 25 maggio 1929 il London Statist aveva scritto. "Negli Stati Uniti, le autorità bancarie vogliono visibilmente un panico economico per bloccare la speculazione". Di fatto, i dirigenti finanziari degli Usa e dei circoli economici mondiali agirono senza remore per porre un freno ad un gioco pericoloso, al tempo stesso però preservando i propri interessi. D'altronde la "grande depressione" fu l'occasione di rafforzare la concentrazione economica come fece JP Morgan Company, costituendo un immenso trust alimentare, Standard Brands (poi divenuto Nabisco Brands).
La crisi degli anni trenta si concluse con la seconda guerra mondiale che fu l'occasione per la finanza anglosassone di rafforzare la propria dominazione sul mondo e in particolare sull'Europa occidentale, grazie anche al successivo aiuto della guerra fredda.

GLI ULTIMI DECENNI

Veniamo agli ultimi decenni. Lo sviluppo delle relazioni economiche internazionali legate all'industrializzazione degli Stati ch'erano rimasti fino ad allora al di fuori della rivoluzione industriale ha favorito l'estensione di reti finanziarie internazionali accentrate su New York e Londra, le quali servono di supporto all'espansione del progetto mondialista che mira ad abolire le frontiere facendo saltare il "catenaccio della nazione". come l'aveva definito il barone di Rothschild nel 1971, e facendo decadere il mondo bianco attraverso il meticciato e la multiculturalità.
Già dagli anni settanta, lo spossessamento degli Stati della loro sovranità monetaria, messo in moto negli Stati Uniti prima del 1914, è entrato in una nuova fase. Rinunciando alla loro sovranità monetaria, gli Stati d'Europa hanno deciso di non rifinanziarsi più per loro conto, come facevano per una gran parte fino ad allora, ma di ricorrere al prestito sui mercati finanziari, così indebitandosi al prezzo del pagamento di tassi d'interesse che accumulano così via via un debito sempre più considerevole. Da qualche tempo, però tardivamente, l'opinione pubblica comincia a scoprire per esempio la legge Giscard-Pompidou del 1973 che instaura questo sistema di incatenamento della Francia. ma alla stessa epoca delle simili leggi furono adottate negli altri stati europei ed esse sono state iscritte nel marmo dei trattati dell'Unione Europea, da una parte con l'articolo 104 del trattato di Maastricht, dall'altra coll'art.123 del trattato di Lisbona, alias "mini-trattato"- voluto da Sarkozy per fare accettare le principali disposizioni del Trattato dell'Unione Europea, bocciato nel 2005 dai francesi e dagli olandesi.
Ricordiamo così che sui circa 1600 miliardi d'euro di debiti della Francia, circa 1400 sono imputabili al servizio del debito accumulato dal 1974. Il tasso d'indebitamento della maggior parte degli stati europei passa l'80% del PIL, e oltre il 100% come l'Italia. Anche la virtuosa Germania vede il proprio tasso d'indebitamento pubblico raggiungere l'83% e le sue finanze sono meno solide di quel che appare. Detto altrimenti, tutti gli stati, compresi gli Stati Uniti, sono in qualche modo presi in trappola e la loro sorte dipende dai "mercati", ossia da alcuni circoli finanziari pronti a scatenare una crisi maggiore o magari attendendola.
Congiuntamente, questa trappola comporta un'altra partita: creare una crescita artificiale dei mercati fondata sul danaro fittizio per un montante che raggiunge oltre i 50.000 miliardi di titoli virtuali o di valore assai dubbio, mentre l'economia reale ristagna (precisiamo che solo il 3% della massa monetaria mondiale contabilizzata ha relazione con l'economia reale, ossia produttiva). Una crisi scatenata in queste condizioni permette a quelli che la producono di riscattare imprese a bassi prezzi, d'accelerare le fusioni bancarie, di rinforzare i monopoli transnazionali, spogliando stati e popoli.

LA CRISI DEL 2008

La crisi finanziaria dell'autunno del 2008 sopraggiunge dopo lo sviluppo lussureggiante di quella che si chiama "industria finanziaria" e degli speculatori d'ogni risma, le tecniche finanziarie avendo fatto oggetto di grandi innovazioni (come i mercati a termine e la titolarizzazione), con l'aiuto dell'informatica; lo sviluppo del credito ipotecario s'aggiunge alla dose. Questa crisi era già prevedibile dal 2007 per quelli che si davano pena d'essere attenti alle discrete dichiarazioni pubblicate nelle riviste finanziarie. Ritroviamo in qualche maniera il processo interno al mondo finanziario descritto precedentemente a proposito della crisi del 1929.
Tutto si svolge come se l'attuale crisi avesse per obiettivo di condurre a risipiscenza gli stati affinché si sottomettano in toto al potere della finanza mondializzata ed apatride che controlla i popoli mediante segni monetari che non hanno altra consistenza che qualche riga di scrittura su quaderni o computer ! Così, la crisi dell'euro, moneta per sua natura fragile data la disparità economica degli stati che vi hanno aderito, è stata accelerata ingigantendo la questione greca. La federalizzazione dell'Europa è proposta come la soluzione; ciò che corrisponde a quanto scriveva un secolo fa Saint Yves d'Alveydre, vicino ai mondialisti dell'epoca, ossia un programma d'accettazione dei progetti politici attraverso l'economia.
A riprova di questa "crisi voluta" citiamo Davidson Rockfeller, uno dei mentori del mondialismo, che dichiarava nel 2006: "Noi arriviamo verso l'emergenza d'una trasformazione globale. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la ed il popolo accetterà il nuovo ordine mondiale".
Ma, più ancora, la politica di copertura dei debiti attualmente condotta, sotto la guardia del FMI, a colpi di ristrutturazioni e liberoscambismo, per tentare di garantire alle banche il pagamento dei crediti accumulati e meglio asservire gli stati, conduce all'impoverimento delle classi medie e alla costituzione d'una società polarizzata tra ricchi e poveri, ad un punto di massima fragilità e riportando i nostri popoli ad un'epoca di sottosviluppo.
A quest'aspetto s'aggiungono dei fattori geopolitici. Vediamo il caso di Saddam Hussein, attaccato certamente per impadronirsi del petrolio irakeno (dalla crisi petrolifera del 1973 organizzata da Kissinger e l'OPEC, il petrolio era divenuto la garanzia del dollaro in quanto moneta di riserva internazionale) ma anche per castigare un regime che si voleva sottrarre alle forche caudine del mondialismo; lo stesso vale per Gheddafi, attaccato, poi assassinato per la semplice ragione che voleva ridurre la rendita delle società petrolifere che operavano in LIbia e instituire un sistema di finanziamento dell'Africa che sfuggisse all'influenza dei banchieri di Wall Street e della City. La situazione iraniana può analizzarsi nella medesima maniera. Aggiungiamo la questione geopolitica centrale della difesa dello Stato di Israele e avremo un quadro assai completo della situazione presente, alla luce della lunga durata storica sinteticamente qui presentata sotto la luce degl'interessi finanziari.
Ciò precisato, la storia non è già stata scritta e il progetto mondialista, ultimo sopravvissuto delle grandi ideologie del ventesimo secolo, non è per nulla assicurato nella sua riuscita.
Fondandosi sull'inganno, sulla speculazione e l'assenza di morale naturale, ossia di conformità alle leggi universali che regolano il mondo e la vita delle società, il costruttivismo mondialista è più fragile di ciò che si pensi, tanto più che il mondo su cui s'appoggia, ossia il "mondo bianco" è in decadimento spirituale e in declino economico.
I popoli debbono ritrovare le loro libertà confiscate dalla moneta fittizia e un debito illegittimo, poiché non spetta alle popolazioni di pagare le mene dei bankster e dei politici mediocri e stipendiati.
Sicuramente tante difficoltà e situazioni impreviste ci attendono. ma l'avvenire è più che mai aperto e sarà ciò che noi sapremo farne.

martedì 6 dicembre 2011

QUANDO I GANGSTER SI METTONO A DARE LEZIONI

Ambienti filo atlantici hanno iniziato ad accusare le autorità russe di brogli nella conta dei voti; e subito la Clinton ci si è buttata a pesce.
Non gli è andata giù che Putin e la sua linea politica abbiano vinto le elezioni legislative, non in maniera trionfale come nella precedente occasione ma comunque in modo netto; la metà dei voti, questo significa, al di là delle patetiche minimizzazioni dei lacchè della stampa "occidentale"; al 50% dei consensi di Russia Unita va aggiunto un altro dieci per cento degli alleati di Russia Giusta; il 10% dei nazionalisti di Zirinowski ed il 20% dei comunisti non camminano certo nella direzione laico-liberale auspicata dagli Usa e dai blogger da loro stipendiati.
Gli è andata male anche stavolta.
E' da settant'anni che gli Stati Uniti vanno cercando nella Russia (fin da quando era ancora sovietica) un partner commerciale privilegiato per costituire, insieme con essa ma da loro diretto, un duopolio mondiale al fine di controllare i mercati del globo.
Sono ben noti i finanziamenti che la rivoluzione sovietica ottenne da banche "diciamo" statunitensi; è meno noto il fatto che l'alleanza di Roosevelt e Stalin, oltre che finalizzata a schiacciare una Germania destinata a diventare forza economica di prim'ordine e che aveva rifiutato i metodi speculativi del commercio internazionale, era quello della nascita di un polo che controllasse il mercato mondiale a 360 gradi.
Roosevelt e la finanza americana ci contavano; gli statunitensi consegnarono a Stalin mezza Europa che le loro forze armate avrebbero potuto riprendersi in un batter di ciglia; non lo fecero perchè più importante della libertà dei popoli dell'est era coccolare il tagliagole georgiano che contavano di portare dalla loro parte: quella che intendeva impossessarsi del controllo globale dei mercati.
Peccato però che Stalin odiasse i capitalisti non meno di quanto aveva odiato i tedeschi e il nazionalsocialismo; e non se ne fece nulla.
Liquefatto il comunismo l'occasione si ripresenta e, paradossi della storia, gli Usa riescono nell'intento col nemico del giorno prima là dove avevan mancato in precedenza coll'alleato di una guerra sanguinosa; agganciano così la nuova leadership russa portandola nell'orbita del modello liberale; ma il progetto dura poco perché Putin gliel'affossa riservando allo Stato il controllo della sua economia.
***
Nessuno è in grado di stabilire se in Russia qualcuno abbia barato nel conteggio dei voti; allo stesso modo in cui non possiamo giurare sul fatto che, nel 2004, il governatore della Florida, Jeb Bush, abbia o no manovrato per far risultare vincente nel suo stato, in maniera poi decisiva, il fratello demente e beone.
Siamo però in grado di affermare con assoluta sicurezza che gli Stati Uniti, da oltre cento anni, si comportano da gangster sul piano sociale, militare e internazionale; è assodato che per costituirsi come nazione ricorsero al massacro sistematico delle popolazioni indiane e acquistarono uomini di pelle scura strappati alle loro terre africane per farne schiavi.
Possiamo affermare con certezza che furono gli Stati Uniti, non la Russia sovietica, a praticare il massacro indiscriminato delle popolazioni tedesche e giapponesi (ma che causarono lutti tremendi anche a città italiane e francesi) con quello che Piero Buscaroli chiamò "l'olocausto dell'aria"; sicuramente erano anglo-nordamericani i gangster volanti che sparavano nelle campagne italiane uccidendo inermi contadini o pacifici ciclisti in un osceno e gratuito tiro al bersaglio; erano anglo-nordamericani i cacciabombardieri i cui piloti avevano scommesso su chi riusciva a buttar giù le due torri di Bologna; le mancarono ma rasero al suolo il vicinissimo Palazzo della Mercanzia; fuor di dubbio che fossero anglo-nordamericane le camionette militari che in Italia, per tutto il periodo dell'occupazione, travolsero, uccidendole e ferendole, migliaia di persone per la guida assassina dei loro autisti bambinoni perennemente ubriachi e ipervitaminizzati (sessant'anni prima della strage del Cermis) in una carneficina passata sotto silenzio e denunciata all'epoca da pochi (tra cui l'indimenticato Giovannino Guareschi nelle colonne del "Candido"); era sicuramente nordamericano il napalm gettato a tonnellate sulle foreste e sui villaggi vietnamiti; sono nordamericani i dollari e le armi fornite a Israele e che servono al massacro sistematico dei palestinesi.
Prima di ficcare il naso negli affari altrui ci spieghino chi ammazzò J.F.Kennedy, l'unico presidente cattolico e non massone nella storia degli Usa; smettendola di gabellarci il rapporto Warren dove si afferma che a sparare da due direzioni opposte fu lo stesso uomo e lo stesso fucile: una cosa del genere non sarebbe capace di farla neppure Rambo.
E si potrebbe continuare per altre mille pagine.

lunedì 28 novembre 2011

LIBIA. PUNTO DELLA SITUAZIONE AL 25 NOVEMBRE

di Bernard Lugan dal sito www.realpolitik.tv
traduzione e diffusione autorizzate

In Libia la guerra dei clan si svolge ormai apertamente in Tripolitania dove cinque grandi forze sono presenti à Syrte, à Misurata, à Bani Walid, nello djebel Nefusa e a Zenten e a Tripoli :

- le tribù della regione della Syrte hanno cessato il combattimento schiacciati sotto le bombe della Nato ma hanno mantenuto la loro fedeltà. Ora che l'aviazione occidentale è tornata alle sue basi, alcune di loro sono pronte a riprendere la lotta contro il CNT.

- Le milizie di Misurata, quelle che catturarono e linciarono il colonnello Gheddafi, rifiutano ogni altra autorità che non sia quella dei loro capi. Tutte le componenti della Tripolitania le odiano, compresi gl'islamisti di Tripoli.
- A sud di Misurata, attorno a Bani Walid la frazione tripolitana della tribu dei Warfalla, ossia circa 500 000 membri, è sempre fedele al vecchio regime.

- Nella regione di Tripoli, i combattimenti tra le due milizie berbere dello djebel Nefusa e di Zenten da una parte e gli islamisti del Tripoli Military Council (TMC) dall'altra, hanno visto un'accelerazione negli ultimi giorni.

Un avvenimento di grandissima importanza s'è prodotto il 25 novembre con l’arresto all’aeroporto di Tripoli d’Abelhakim Belhaj, capo del TMC mentre, sotto falsa identità, tentava di prendere il volo per la Turchia. L’arresto da parte della brigata di Zenten di questo fondamentalista, vecchio combattente d’Afghanistan sostenuto dal Qatar, marca una svolta nell'evoluzione della situazione libica. Perché mai questa partenza rocambolesca ? Si sentiva minacciato e stava prendendo la fuga ? Si stava recando in missione segreta in Turchia? Questo arresto segna l'inizio del rifiuto dell'opprimente onnipresenza delle forze e degli agenti del Qatar, (numerosi libici domandandosi se il loro paese non sia divenuto una colonia di questo emirato ricchissimo ma sottopopolato e il cui esercito è composto da mercenari) ?
Abelhakim Belhaj è stato liberato su richiesta del presidente del CNT, Mustapha Abdel Jalil.

Lo sfondo del problema che gli osservatori una volta ancora non hanno visto, e che certuni una volta ancora riprenderanno, naturalmente senza citarmi e quando avranno letto il mio comunicato, è che i berberi hanno deciso di giocare la loro carta. Grandi perdenti – come avevo annunciato - della nuova situazione politica, essi si ritrovano in effetti, come prima della caduta del regime di Gheddafi , di fronte ad un nazionalismo arabo-musulmano che nega la loro esistenza. Nessun ministro del nuovo governo è berbero allorché le loro due brigate costituirono i soli elementi militarmente operativi della ribellione. Di fronte a questa situazione, il 25 novembre, la Conferenza Libica degli Amazighs (berberi) ha sospeso le sue relazioni con il CNT.
Militarmente, i berberi sembrano aver preso il controllo d'una parte della città di Tripoli, tra cui l'aeroporto. Altra chance, essi tengono loro prigioniero Seif al-Islam Gheddafi che hanno trattato con considerazione e anche rispetto. Un tale atteggiamento non è certamente del tutto spontaneo poiché contrasta coi trattamenti ignominiosi che i miliziani di Misurata fecero patire a suo padre e che numerosi libici hanno giurato di vendicare.
Se l'attuale governo non darà soddisfazione ai berberi, i quali costituiscono circa il 10% dei 6 milioni di Libici, un'alleanza rivolta al tempo stesso contro il CNT e contro Misurata e che comprenderebbe le loro milizie, la frazione tripolitana dei Warfalla così come le tribù della regione della Syrte, potrebbe essere costituita. E senza colpo ferire potrebbe impadronirsi della Tripolitania, soltanto Misurata essendo in grado di opporre una minima resistenza. Senza contare che al Sud, i tuareg e i toubou sono anch'essi restati fedeli alle loro passate alleanze.
Quanto alla Cirenaica, che é oggi sotto il controllo diretto degl'islamisti, essa è di fatto sfuggita alle autorità di Tripoli.

giovedì 17 novembre 2011

IL TALENTO DI MR.MONTI

Ecco a noi Mario Monti, annunciato salvatore d'Italia, mandato da quell'Europa "legale" - oltraggiata dall'annuncio del referendum greco, massima espressione della democrazia - covo di quella cricca di banchieri, politici, burocrati che vivono alle spalle dell'Europa "reale".
Ma è tutto oro quel che luccica?
Questo "grande economista", definito da "Le Monde" (14 novembre) "il prussiano d'Italia", nella realtà uomo-Trilateral e uomo-Goldman Sachs, ha ricoperto nell'Unione Europea il ruolo di Commissario, incaricato del Mercato interno e poi della Concorrenza.
E nello svolgere questa funzione egli ha dimostrato tutto il proprio zelo di ideologo liberale, fautore della concorrenza dura e pura.
Innanzitutto bloccando le dinamiche di fusione di grandi gruppi europei che, in questa era post-industriale e mondializzante, dovevano far fronte ad entità industriali multi o trans-nazionali sempre più potenti, sempre più concorrenziali, soprattutto con quelle del nord America che, rispetto a quelle europee, partono da una posizione di forte finanziarizzazione; è un dato di fatto che l'ottanta per cento delle imprese statunitensi si autofinanzia mentre la stessa percentuale d'imprese europee è costretta a ricorrere al credito(1).
Non prendiamoci in giro e guardiamo le cose colle lenti della cruda realtà: la sfida della mondializzazione non la si vince se l'Europa non si dota di strumenti atti a reggere il confronto, anche sul piano geopolitico, con una concorrenza mondiale tanto più spietata quanto irrispettosa delle regole del gioco; l'alternativa è il rilancio industriale dell'Europa, anche attraverso alleanze strategiche - e la sua sopravvivenza economica quale presupposto e motore di quella culturale - o la sua deindustrializzazione e la conseguente svendita a poteri finanziari-imprenditoriali transcontinentali che se ne spartiranno le spoglie facendola definitivamente uscire dalla Storia.
Il primo veto della commissione presieduta da Monti fulmina il tentativo di fusione delle americane General Electric-Honeywell: I successivi tentativi di bloccare le iniziative di fusioni europee Airtours-First Choice (compagnie di aviazione), Schneider-Legrand e Tetra Laval-Sidel e le sanzioni inflitte alla Volkswagen per abuso di posizione dominante in materia di prezzi di vendita del modello Passat vengono però cassati dalla Corte di Giustizia Europea che in prima istanza boccia le decisioni emanate dalla commissione.
La decisione che boccia il veto alla fusione dei gruppi d'apparecchiature elettriche Schneider e Legrand arriva però troppo tardi poichè la Legrand nel frattempo è stata già svenduta.
In questa decisione i giudici europei enumerano numerosi errori manifesti, omissioni e contraddizioni nell'analisi economica elaborata dalla commissione a sostegno del proprio rifiuto.
Nell' "affaire" Tetra Laval-Sidel il veto viene annullato essendo, secondo la Corte Europea, "l'analisi economica delle conseguenze a corto termine della fusione sulla concorrenza, insufficiente sotto il profilo degli elementi probanti e viziata da errori interpretativi".
Dei veri e propri schiaffi alla pretesa competenza del dr.Monti.
Ma a parte queste vere e proprie debacles, resta il fatto che il dogmatismo liberale della concorrenza assoluta ed astratta - che dunque deve colpire le posizioni "dominanti" potenzialmente monopolistiche, indipendentemente dall'interesse del consumatore alla qualità e al prezzo del prodotto - e la conseguente reputazione d' "integrità" che il neo-premier si guadagna nell'opporsi a giganti americani come Microsoft e a General Electrics nel suo tentativo di fusione con Honeywell o a denunciare aiuti sotterranei degli stati a imprese nazionali (vietati sempre a nome del principio della "concorrenza pura e non falsata"), sembrano però dissolversi di fronte alle molteplici e durature pratiche fraudolente di certi gruppi finanziari di Londra e di New York e, in particolare, quelle condotte dalle banche Rotschild e Goldman Sachs.
Qual è la direzione che i signori del danaro vogliono imporre al mondo? Quella voluta da interessi trans-nazionali in una "governance" mondiale capitanata dagli Stati Uniti: un mercato globale da lei diretto con un'Europa virtuale e disossata sottoposta al loro controllo; è la stessa strategia che nel dopoguerra vide la potenza americana esigere la decolonizzazione (in nome della santa democrazia) per favorire l'esportazione in Africa e nel terzo mondo di prodotti made in usa in sostituzione di quelli fabbricati in Europa.
Alla de-colonizzazione dell'Africa di allora oggi si sostituisce la de-nazionalizzazione dei poteri politici europei, commissariati dai burocrati culturalmente apolidi di Bruxelles e Mario Monti ne è il più lampante esempio.


(1) E, guarda caso, le regole di 'Basilea 3' impongono agli istituti bancari sempre più limitazioni per l'accesso al credito; chi detta le regole del gioco vince.

lunedì 7 novembre 2011

NON PAGARE IL DEBITO ALLE BANCHE.

La crisi finanziaria che investe l'Europa è, appunto, una crisi finanziaria, ossia legata alla circolazione del danaro, al rapporto debito/credito tra prestatori e debitori; il mondo non scarseggia di prodotti, di servizi, di beni ma di danaro, ossia del mezzo di scambio che serve a procurarseli.
Gli squilibri che oggi devastano la nostra tranquillità - familiare, imprenditoriale e dunque - sociale sono, in gran parte, il frutto di debiti contratti dagli stati per provvedere alle esigenze legate all'esercizio della propria sovranità: scuola, sicurezza, servizi sociali etc etc; una parte di questi debiti sono stati assunti nei confronti del circuito bancario; un'altra parte nei confronti di risparmiatori.
Non bisogna negare l'evidenza: una parte non trascurabile delle uscite dello stato italiano è puro spreco, clientela, inutile e greve burocrazia, assistenzialismo gabellato come spesa sociale.
E questo è un fatto; ma è pure un fatto che lo Stato ricorre al prestito ricevendo moneta creata dal nulla, nota questione che è inutile qui ricordare.
Ed allora, se i debiti verso i cittadini bisogna pagarli, quelli verso le banche no; qualificati come soggetti di pubblico interesse dalle leggi fasciste degli anni trenta, nella loro attività di raccolta del risparmio e di erogazione del credito e poi divenute, grazie a direttive europee degli anni settanta/ottanta, mere imprese con fini speculativi, gli istituti bancari hanno da venti/trent'anni a questa parte fatto i propri porci comodi e i propri sporchi interessi; hanno fatto quello che è stato loro concesso di fare, si potrebbe obiettare. Benissimo; ora però lo Stato faccia il suo, d'interesse, che è quello che la costituzione gli assegna o gli raccomanda, ossia controllare il credito e il risparmio (articolo 47 della costituzione) e nazionalizzare la fase d'emissione dell'euro (articolo 43 della costituzione: a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale).
Si dirà: ma i debiti vanno pagati; balle, lo Stato può fare quello che vuole: creare leggi, abrogarle, dichiarare guerre, cannoneggiare altri territori, perdonare i malfattori, svuotare le tasche dei propri cittadini e addirittura dichiarare inesigibili certi crediti; tutte cose che gli Stati hanno sempre fatto e continuano - e continueranno - a fare.
Qualche esempio? Recentissimamente l'Islanda e, nel 2008, l'Ecuador. Asfissiato dal rimborso di prestiti che rappresentavano il cinquanta per cento del proprio bilancio, l'allora presidente Raphael Correa rifiutò di pagare il 40% del debito dichiarandolo illegittimo, costringendo così i creditori a rinunciare a gran parte delle loro pretese.
L'Ecuador entrava così per la terza volta in 14 anni in default ma non come risultato di una decisione subìta ma di un legittimo - in quanto sovrano - atto politico.
Così s'espresse il presidente ecuadoregno: "Ho dato l'ordine di non pagare gli interessi. Il paese è dunque in default su questo debito coll'estero. Noi sappiamo ciò che andiamo ad affrontare, dei veri e propri mostri che non esiteranno nel tentare di schiacciare il paese ma io non potevo più permettere che si continuasse a pagare un debito immorale ed illegittimo. In quanto presidente della Repubblica me ne assumo tutta la responsabilità".
Il 12 dicembre 2008, nello stesso giorno in cui questo discorso era pronunciato, 30,6 milioni di dollari d'interessi su titoli rimborsabili nel 2012 non venivano pagati; la stessa sorte subivano i debiti per successivi interessi venuti a maturazione.
I crediti bancari contestati ammontavano a 3,8 miliardi di dollari, ossia quasi il 40% del debito pubblico coll'estero, pari a 9,9 miliardi di dollari rappresentati principalmente da buoni del Tesoro, oggetto di transazione sui mercati finanziari e in particolare su quello di Wall Street.
Davanti alla determinazione di quel governo sudamericano i detentori di quei titoli cominciarono a svenderli fino al 20% del loro valore; il governo ecuadoregno riuscì a comprarne il 91%, riscattando quindi il proprio debito ad un costo di 900 milioni di dollari, con un conseguente risparmio di circa 7 miliardi di dollari.
E da questo rifiuto di pagare il debito non è certo seguito il caos, visto che il tasso di crescita dell'Ecuador è pari al 3-4 %.
Restiamo in attesa che i governi europei - in particolare di Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e altri - si rendano conto che l'interesse dei popoli che governano è superiore a quello dei gruppi finanziari da cui sono taglieggiati da decenni e, dunque, facciano valere i rispettivi diritti con un atto di prepotente ma legittima sovranità.

mercoledì 26 ottobre 2011

PERONISMO / PERONISMI

La vittoria di Cristina Kirchner alle elezioni presidenziali e quella del suo raggruppamento (Frente para la Victoria) per il rinnovo parziale di camera e senato erano ampiamente scontate.
La percentuale ottenuta dalla "Presidenta" (54%) è seconda solo a quella raggiunta da Juan Domingo Peron nelle elezioni del 1951 quando il generale
raggiunse oltre il 62% dei consensi.
E' un errore però ravvisare nella politica di Cristina Kirchner una sorta di continuità rispetto all'originaria dottrina "justicialista".
Sotto la sigla del peronismo si sono succedute presidenze e politiche economiche profondamente diverse se non opposte: se Peron alla fine degli anni quaranta nazionalizzò le ferrovie, allora appartenenti a compagnie private britanniche (che coi loro costi di fatto azzeravano i ricavi degli imprenditori locali), il peronista Menem (sfiorò il 50% dei consensi in occasione della sua rielezione del 1994) colla sua politica liberista fatta di privatizzazioni e "dollarizzazione" dell'economia argentina (responsabile del default del 2001) è, a sua volta, lontano anni-luce dalle scelte popolari/populiste e spesso demagogiche della vedova Kirchner.
Alla quale va riconosciuto il merito di aver aiutato le classi medie e medio-basse a sopportare la perdita di valore del peso (che soffre di una svalutazione del 20% all'anno) attraverso una politica di abbassamento dei prezzi dei prodotti di prima necessità (gas, luce, acqua e trasporti costano agli argentini un sesto di quello che pagano i brasiliani o i cileni; ma ancora per quanto?). Però a questa encomiabile volontà di garantire con prezzi politici alcuni bisogni fondamentali, ciò che spiega il recentissimo plebiscito tributatole, non corrisponde una lungimiranza in altre fondamentali scelte economiche.
L'Argentina è per sua natura destinata ad essere un paese esportatore; con quaranta milioni d'abitanti, una superficie grande undici volte l'Italia e una ricchezza di prodotti, di qualunque genere, dai metalli all'allevamento ai frutti della terra, chi potrebbe pensare ad una economia chiusa al mercato internazionale? Juan Domingo Peron sostenne l'iniziativa privata e l'agricoltura incoraggiando il consumo; il governo attuale, accecato dai pregiudizi ideologici di alcuni ministri, vede nell'imprenditore (soprattutto quello agricolo) un nemico e pone incomprensibili e assurde limitazioni al commercio estero, in entrata e in uscita.
L'ubriacatura demo-progressista dell'attuale società argentina ha provocato un'altra vittima: la Giustizia. Tralasciando le voci, insistenti e soffocate, sull'arricchimento personale della famiglia presidenziale, il cui patrimonio risulta centuplicato da quando Nestor Kirchner fu eletto presidente nel 2003, e pure trascurando il sistema clientelare dell'attuale gruppo dirigente, va sottolineato che oggi marciscono nelle galere argentine un migliaio di militari, accusati di crimini legati alla lotta contro il terrorismo nel periodo 1976-1983, quando il regime militare assunse il potere.
Il primo governo Kirchner fece infatti abrogare la legge di amnistia che Menem prima e Duhalde poi concessero, gradualmente, sia ai militari sia ai terroristi; il perdono per tutti doveva favorire la riconciliazione nazionale ma l'annullamento della legge, disposto SOLAMENTE per i delitti dei militari, ha fatto riprecipitare l'Argentina in un clima gonfio di spirito di vendetta.
Un migliaio di persone - fra cui moltissime in età avanzata - aspettano da sette anni la conclusione dei loro processi, e dunque sono innocenti fino prova contraria; nel frattempo 140 di loro sono morte di vecchiaia o di malattia dietro le sbarre. Mentre per i terroristi che dal 1970 fino all'inizio degli anni ottanta si macchiarono di omicidi di poliziotti, di ufficiali dell'esercito, di soldati, di dirigenti politici e sindacali (quasi tutti peronisti !), di cittadini inermi, di mogli e figli di ufficiali, di sequestri ed estorsioni, d'attentati dinamitardi, per loro nessun processo, nessuna condanna, anzi la riabilitazione politica.
E non solo quella; indennizzi di 200.000 dollari per ciascuna persona riconosciuta "vittima del governo militare", con criteri di giudizio simili a quelli usati nel dopoguerra italiano per i riconoscimenti della "qualità" di partigiano; nessun indennizzo invece è stato mai destinato alle vittime degli attentati e della violenza terroristica. Desaparecidos pure loro.
L'umiliazione delle Forze Armate e la rivalutazione di vecchi rottami del terrorismo ideologico (e non solo ideologico) degli anni settanta/ottanta, oggi ben saldi in posizioni di potere, si accompagnano ad evidenti derive di stampo progressista: la legalizzazione del matrimonio omosessuale e l'imminente legalizzazione dell'aborto ne costituiscono segni inequivocabili.
Resta però un dato incontestabile: il "justicialismo" è l'anima dell'Argentina; l'eredità del peronismo, in verità più romantica e nostalgica che strettamente dottrinale, rimane la memoria storica della nazione ed il voto a Cristina Kirchner più che un riconoscimento delle sue capacità, rappresenta il pegno della nazione a quell'ideale che pulsa nel sangue della stragrande maggioranza degli argentini; ed è in questo stesso solco, paradossalmente, che dovranno operare le forze nazionali (sottorappresentate elettoralmente dal modesto risultato del candidato - anch'egli peronista ma "dissidente" - Duhalde) per opporsi con successo alle derive progressiste e vendicative del "Kirchnerismo".

giovedì 6 ottobre 2011

MULTIPOLARITA' 1 — NATO 0

di Xavier Moreau
articolo apparso su www.realpolitik.tv
traduzione e diffusione autorizzate

Lo scacco della risoluzione occidentale contro la Siria rappresenta un nuovo duro colpo all’imperium americano.
Contrariamente a quanto accaduto con la Serbia nel 1999 e coll’Irak nel 2003, l'amministrazione americana non può persistere nella violazione dei limiti del diritto internazionale. L'impotente collera di Susan Rice (ambasciatrice degli Usa all'Onu) testimonia l'arretramento della posizione dell’ex-potenza mondiale sulla scena internazionale. Il ritornello moralizzatore, utilizzato dalla diplomazia americana in questi ultimi vent'anni, non commuove ormai che la stampa occidentale. Gli Stati Uniti di Barack Obama non sono più quelli di Bill Clinton, dove la pianificazione e l'esecuzione d’una epurazione etnica, come quella dei serbi di Krajina, potevano avvenire senza provocare la minima seria opposizione internazionale.
Gli Stati Uniti raccolgono oggi i frutti di vent'anni d’una politica estera cinica e controproducente. L'atteggiamento servile della stampa occidentale ha perduto la sua ragion d'essere visto che i popoli europei non le prestano più fiducia. Certamente, i regimi islamisti e islamo-mafiosi piazzati in Bosnia e in Kosovo, il sostegno ai terroristi nel Caucaso e ormai ai Fratelli Musulmani nei paesi arabi, non hanno scosso l'opinione pubblica dei paesi occidentali. Al contrario, per Cina e Russia, l’ « Islamerica» è una minaccia perfettamente tenuta in conto, non soltanto in politica estera ma ugualmente in politica interna.
La Russia, grazie a queste crisi arabe, ha fatto passare un messaggio chiaro. Che sosterrà sempre i suoi leali alleati. La Siria può oggi felicitarsi di non aver tenuto comportamenti ambigui nei confronti del suo potente alleato. Nel 2010, l’Iran aveva fatto le spese del suo avvicinamento con la Turchia e la Russia aveva lasciato allora agire il Consiglio di Sicurezza dell'ONU contro Téhéran. Per quanto riguarda Gheddafi, i suoi tentennamenti con l’Occidente ne avevano fatto un partner di dubbio affidamento agli occhi di Mosca. Proprio il Rais ha firmato la propria condanna, il giorno in cui ha voluto diventare alleato degli occidentali, come tutti quei « visionari » che furono lo Scià di Persia, il generale Noriega, Slobodan Milosevic, Saddam Hussein, Laurent Gbagbo…
I futuri potentati che saranno piazzati nei paesi conquistati dalla NATO faranno meglio ad avvicinarsi alla Russia, poichè come Moubarak o Ben Ali, sono tutti surrogabili, giudicabili e condannabili.

sabato 3 settembre 2011

LA LIBIA DI GHEDDAFI SOTTO LE BOMBE DELLA NATO

LA LIBIA DI GHEDDAFI SOTTO LE BOMBE DELLA NATO
(tratto da "Chronique du choc des civilisations" di Aymeric Chauprade, IIº edizione, Parigi 2011, traduzione e diffusione autorizzate)

IL REGIME DEL COLONNELLO GHEDDAFI ERA RIUSCITO A MANTENERE UNA CERTA UNITA' IN UN PAESE DI FATTO PROFONDAMENTE FRAMMENTATO. LA SOLLEVAZIONE DEI TERRITORI DELL'EST, NELLA PRIMAVERA DEL 2011, HA INIZIALMENTE UN CARATTERE TRIBALE. QUANTO ALL'INTERVENTO ARMATO DELLA NATO, NON E' SENZA RELAZIONE COLLE RICCHEZZE IN PETROLIO E IN GAS PRESENTI NEL SOTTOSUOLO E NELLE PROFONDITA' MARINE DELLA LIBIA.

Il 1º settembre 2009, il regime del colonnello Muhammar Gheddafi festeggia in grande pompa il suo 40º anniversario. Riabilitato dal 2007 da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, il regime ha ufficialmente girato le spalle al terrorismo (esplosione di due aerei commerciali occidentali, sopra Lockerbie e sopra il deserto del Teneré, ma anche sostegno all'IRA e all'ETA basco negli anni settanta-ottanta) e alle armi di distruzione di massa.
Quel giorno a Tripoli, tra i numerosissimi invitati d'onore venuti dal mondo intero si ritrovano i presidenti dello Zimbabwe Mugabe e del Sudan Omar Hassan al Bashir, il capo più noto della pirateria somala, Mohammed Abdi Hasan Hayr, il premier italiano Silvio Berlusconi....
A metà febbraio 2011, l'onda d'urto conseguente all'affondamento dei regimi di Ben Ali in Tunisia e di Moubarak in Egitto provoca una nuova sollevazione delle province ribelli al governo di Tripoli.
La LIbia sprofonda rapidissimamente nella guerra civile e degli aspri combattimenti s'accendono tra le forze lealiste (Tripolitania all'ovest) e i ribelli di Bengasi (Cirenaica all'est).
Il 19 marzo 2011, mentre in Bahrein la polizia spara sui manifestanti sciiti già da più d'un mese, una coalizione condotta da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna (che ha ottenuto un limitato mandato ad agire dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite - risoluzione 1973), lancia la sua offensiva in Libia.
L'intervento della NATO ha luogo in uno Stato la cui unità è fragile. La LIbia non è uno Stato-nazione; essa è costituita dalla somma di tre province (Tripolitania, Cirenaica, Fezzan) che si sono sempre opposte le une alle altre. L'unità del paese s'è costituita attraverso l'ideologia della rivoluzione di Gheddafi nel 1969 (la Jamahiriya), ma questa non ha mai annullato le logiche tribali e solo l'abilità del leader della rivoluzione ha saputo calmare gli antagonismi.
La geopolitica della Libia è innanzitutto quella delle 140 tribù (di fatto una trentina soltanto hanno un peso reale) che popolano le due province costiere tradizionalmente antagoniste, la Tripolitania e la Cirenaica (ossia l'essenziale della massa demografica del paese) e l'immensa provincia desertica del Fezzan.
La Cirenaica guarda verso l'Egitto (dove i ribelli hanno trovato dei sostegni) ed il Medioriente, mentre la Tripolitania è rivolta verso il Maghreb (ciò che spiega, oltre alla paura del contagio rivoluzionario, il discreto sostegno dell'Algeria al regime di Gheddafi). La Cirenaica è la culla dello Stato moderno della Libia, fondato da una monarchia uscita dall'ordine dei Senussi, una corrente sufi fondata nel 1842 ad Al-Baida, che pratica un islam rigorista e conservatore; questa corrente ha sempre rappresentato una forza politica sotterranea opposta agli aspetti modernizzatori e laicizzanti della rivoluzione gheddafiana. Ospita al suo interno le correnti dijhadiste più radicali del paese.
Gheddafi, membro della tribù tripolitana dei Kadhafa, rovescia il re Idris Iº nel 1969. Favorisce la sua tribù e tuttavia, questa non essendo numerosa, forma un'alleanza con le due altre grandi tribù dell'ovest del paese, i Warfallah (Tripolitania, un sesto della popolazione, ossia più d'un milione di libici) e i Magariha (Fezzan). Le altre tribù di Tripolitania, meno numerose e più distanti della confederazione tribale pro-Gheddafi, saranno regolarmente contaminate dallo spirito di sedizione.
Ma sono le tribù di Cirenaica che hanno costituito da sempre - e ben prima del 2011 - i bastioni della ribellione contro Tripoli; a cominciare dagli Zumaya, la più importante delle tribù libiche, protettrice d'importanti campi petroliferi (Sarir, Messla, Aquila). Alcune di queste tribù sono nel campo dell'islamismo radicale: i Misurata (all'est, assai presenti a Bengasi e a Darnah), gli Al-Awiqir (Al-Baida, città dei Senussi).
ARMI RIVENDUTE AI TERRORISTI
Il 20 febbraio 2011, quando Seif Al-Islam, uno dei figli di Gheddafi, paventa la prospettiva d'un bagno di sangue in un suo discorso trasmesso per televisione (e la cui presentazione, deformata dai media occidentali, servirà da pretesto all'asse Washington-Londra-Parigi per intervenire militarmente), egli prende di mira in realtà "l'emirato islamico di Al-Baida". Il potere libico non fa che agire esattamente come fa, nello stesso momento, il potere yemenita di Alì Abdallah Saleh, il quale pratica ugualmente la punizione collettiva delle tribù ribelli - una tradizione tribale e beduina.
Una spiegazione che i poteri occidentali si guardano bene dal mettere in luce, poiché essa vale ugualmente per l'insieme dei loro alleati del golfo arabo-persico !
La stessa disinformazione occidentale si diffonde a proposito dei pretesi mercenari neri di Gheddafi. Si tratta in effetti dei Toubous, una delle tribù turbolente della Libia che, come i Tuareg, vive in piccoli gruppi nelle difficili condizioni del deserto, vicino alle montagne del Tibesti. Si tratta dunque di libici e non di stranieri. Ed essi sono pagati, come quasi tutte le tribù che entrano nell'uno o nell'altro dei campi, poiché nella tradizione araba beduina la fedeltà la si compra coll'oro. Del pari, la geopolitica libica deve prendere in conto i Tuareg, berberi puri che non si sono mescolati alle popolazioni arabizzate delle coste e che praticano il nomadismo vicino alla frontiera algerina. I Tuareg hanno recuperato una parte delle armi razziate nei depositi di munizioni dell'esercito regolare e le rivendono a trafficanti e a terroristi (AQMI - Al Qaeda Maghreb Islamico) di ogni risma.
La realtà libica è dunque quella dello scoppio dell'equilibrio tribale che Gheddafi aveva saputo mantenere grazie alla manna petrolifera. Sono d'altronde gli interessi petroliferi, dissimulati (come in Afghanistan, in Iraq, nel Darfour...) dietro la maschera del dovere d'ingerenza democratica ed umanitaria, che spiegano ampiamente l'interventismo occidentale.
La rimozione dell'embargo nel 2003 e la corsa alle risorse energetiche del paese avevano fatto dimenticare al grande pubblico (ma non alle grandi compagnie petrolifere) il ruolo centrale di Gheddafi nel primo choc petrolifero del 1973 e le nazionalizzazioni ch'egli decise nel suo paese.
I nazionalismi petroliferi della Russia, dell'Iran, del Venezuela, dell'Ecuador e della Libia costituiscono effettivamente il nemico assoluto delle "majors" occidentali, oscurate sempre di più dalle grandi compagnie nazionali dei paesi produttori (Petrobras in Brasile, PDVSA in Venezuela, Rosneft e Gazprom in Russia...).
UN' ALTERNATIVA AL GAS RUSSO
Il petrolio libico è di ottima qualità e il suo costo d'estrazione è basso. E', così come il suo gas, geograficamente vicino all'Europa. La Libia rappresenta il 40% delle riserve di petrolio in Africa, il 3% delle riserve mondiali ed è il secondo produttore d'oro nero del continente, dietro la Nigeria e davanti all'Algeria.
Petrolio e gas costituiscono il 95% dei ricavi delle esportazioni della Libia, ossia, nel 2009, 30 miliardi di dollari derivati dal petrolio e 3.8 miliardi dal gas: al tempo stesso, lo Stato libico importa il 75% dei propri bisogni alimentari, ciò che costituisce una debolezza ancora maggiore.
Quanto al gas, esso è in ritardo sul petrolio in termini di sfruttamento. La Libia rappresenta un potenziale assai importante per l'Europa e, come l'Algeria, un serbatoio alternativo al gas russo (un terzo delle riserve mondiali). In questi ultimi tempi la Libia, come l'Algeria, si stava avvicinando a Mosca. L'Europa (gli Stati Uniti essendo autonomi quanto al gas) temeva forse una "Opec" del gas capace di strangolarla? Lo sfruttamento del gas costituisce una posta in gioco importantissima nei decenni a venire, poichè la metà delle riserve petrolifere continentali contengono del gas associato.
Il più grande progetto concernente il gas, nel mondo, è offshore, situato al largo di Ghadames, nel nord-ovest del paese (con un obiettivo di produzione di 10 giga metri cubi di gas all'anno; ndt 1 gm = 1 miliardo di metri cubi).
Ad ognuno degli elementi geopolitici antagonisti che sono la Tripolitania e la Cirenaica, corrisponde una zona di produzione d'idrocarburi (petrolio e gas). La Tripolitania estrae il petrolio dal campo Elefante, situato nel deserto dell'ovest (Fezzan) e l'invia a Tripoli ma vi è anche il campo gasifero di Wafa che utilizza il gasdotto Greenstream dalla frontiera algerina fino in Italia; una parte costituita da gas liquefatto alimenta la Spagna. Dai campi petroliferi della Cirenaica il grosso del petrolio libico parte verso la raffineria strategica di Ras Lanuf.
Sotto il regime di Gheddafi l' ENI (presente dal 1959, ossia dieci anni prima della presa del potere del rais) è divenuto l'attore straniero maggiore nel settore petrolifero e gasifero libico. L'Italia dipende d'altronde dalla sua ex colonia per il 24% del petrolio importato e per il 15% del gas importato, percentuali certamente considerevoli.
Una Libia governata dall'est (Bengasi) e non più dall'ovest (Tripoli) avvantaggerebbe gli inglesi del British Petrolium - BP ; questa compagnia nutre delle ambizioni fortissime in Libia, particolarmente nello sfruttamento delle profondità dell'offshore marino situato nel golfo della Sirte.
Dopo la catastrofe del golfo del Messico dell'aprile del 2010 che ha seriamente colpito le sue finanze, BP deve trovare urgentemente delle nuove riserve da sfruttare. Gheddafi, dopo quella catastrofe, aveva alzato le sue pretese per l'autorizzazione al trivellamento nel golfo della Sirte. BP e Total s'attendono molto da un nuovo regime costituito da uomini di fiducia di Londra e Parigi. Gli italiani, in compenso, avranno senza dubbio delle difficoltà a mantenere i propri interessi allo stesso livello del periodo del vecchio regime.
La Libia del dopo-Gheddafi è entrata in un clima di permanente guerra civile. Le potenze occidentali, che intendono riorganizzare il dato petrolifero e gasifero, si scontreranno a molti ostacoli per ritrovare la stabilità: in primo luogo, come in Iraq nel 2003, i depositi d'armi dell'esercito regolare sono stati razziati; la popolazione è armata ed è prevedibile un utilizzo massiccio ed indiscriminato di "IED" (ordigni esplosivi improvvisati). In secondo luogo l'equilibrio tribale è saltato e senza l'emergenza d'un uomo forte capace di ricostruirlo, appare prevedibile una guerra intertribale paragonabile a quella comunitaria dell'Iraq post Saddam Hussein .
In terzo luogo l'Algeria e l'Egitto, in maniera tra loro contrastante, cercheranno di giocare un ruolo nel dopo-Gheddafi.
UN BASTIONE DELL'ISLAMISMO RADICALE
Della caduta di Gheddafi e della divisione duratura del paese rischia di approfittare l'islam radicale. I djihadisti libici hanno partecipato per lungo tempo alle operazioni in Afghanistan (contro i russi), in Bosnia, in Cecenia, in Iraq. Dopo aver lasciato l'Afghanistan all'inizio degli anni novanta, molti djihadisti sono rientrati in patria creando un gruppo divenuto nel 1995 il "Gruppo libico di combattimento islamico" che conduce una guerriglia contro Gheddafi. Il 3 novembre 2007 un messaggio audio del numero 2 di Al-Qaeda, Ayman Al-Zawahiri, indicava che il gruppo s'era ufficialmente unito alla rete islamista. Al-Qaeda ha sempre potuto contare su un numero importante di libici al più alto livello, quali Abu Yahya Al-Libi, Anas Al-Libi, Abu Faraj Al-Libi (detenuto a Guantanamo) e Abu Laith Al-Libi, ucciso nel gennaio 2008 da un drone in Pakistan. Il peso della partecipazione libica nella lotta djihadista in Iraq è poi divenuto evidente quando, nel settembre 2007, gli americani hanno sequestrato degli schedari di Al-Qaeda in una casa della città irachena di Sinjar. Questi "Sinjar files" hanno rivelato, in primo luogo, che i libici costituivano la prima nazionalità tra i djihadisti stranieri in Iraq e, in secondo luogo, ch'essi venivano tutti da Darnah e da Bengasi (Libia orientale). Dopo l'Afghanistan (durante la guerra fredda), poi le guerre di Bosnia, del Kossovo e dell'Iraq, dopo il sostegno all'AKP in Turchia e ai Fratelli Musulmani nel mondo arabo, gli USA offrono in Libia un nuovo episodio della loro alleanza sotterranea con l'islam radicale.

domenica 20 marzo 2011

EUROPA CALANTE LUNA CRESCENTE

Fino a che punto debbono o non debbono riguardarci - a noi italiani e all'Europa a cui bene o male apparteniamo, per ragioni storiche, etniche e geopolitiche ben precedenti il sorgere della dittatura burocratica di Maastricht, Lisbona e Bruxelles - gli scontri tra i briganti libici, pro e anti Gheddafi?
Basterebbe osservare la cartina geografica per capire che la cosa ci concerne assai e non solo perché la Libia ci fornisce petrolio ed è una porta d'accesso dell'immigrazione africana ma perché la storia sta ridisegnando il bacino del Mediterraneo come punto nevralgico dei futuri equilibri mondiali.
Iniziato il suo declino colle scoperte dei nuovi mondi e spostandosi il baricentro degli interessi economici sempre più a occidente colle potenze europee che mantenevano peró per lungo tempo la barra del timone saldamente nelle proprie mani, la conseguente atlantizzazione dei commerci contribuì in maniera determinante alla perdita d'influenza dell'impero turco e alla sua progressiva marginalizzazione economica, politica e militare, culminata col suo smembramento, ultimo capitolo di quel processo di decadenza; e con esso alla perdita di vitalitá dell'islamismo, inteso come volontá di potenza espressa dagli stati o dalle nazioni seguaci di Maometto, che proprio nella politica espansionistica della Turchia aveva trovato la più compiuta espressione.

Ogni analisi dev'essere condotta "frigido pacatoque animo"; lasciamo dunque da parte pregiudizi, propensioni ideologiche, rancori, simpatie.
Gheddafi è un mascalzone che ha umiliato l'Italia - che a sua volta gliel'ha però permesso - depredando decine di migliaia di nostri connazionali e Tripoli, lui consenziente, ha rappresentato per vent'anni un canale del terrorismo internazionale; tali non indifferenti precedenti storici ci debbono servire peró non già come cieche ragioni di rivincita ma al più come metro di giudizio, per valutare la psicologia e dunque le possibili reazioni del satrapo libico.
Al tempo stesso evitiamo però di cadere nella tentazione opposta, come fanno coloro che, vedendo in lui il difensore del proprio popolo e dei suoi interessi nazionali, si schierano ideologicamente e a priori contro ogni suo avversario.
E chiediamoci piuttosto se queste profonde turbolenze del mondo musulmano
- unite ad un riposizionamento d'una Turchia sempre meno filooccidentale, sempre meno "laica" e incamminata, dopo la parentesi kemalista, ad una reislamizzazione della propria società - non rappresentino il sintomo preoccupante d'un forte risveglio islamista o quantomeno possano fungerne da detonatore; giá stuzzicato dalla brutale e banditesca condotta dello stato sionista e dalla miope politica mediorientale degli Stati Uniti oltre che dalla filantropica apatia dell'Europa il risveglio del sogno islamico appare oggi favorito dall'accresciuta importanza del Mediterraneo liberatosi dalla morsa del bipolarismo della guerra fredda; qui s'incrociano infatti interessi europei, islamo-islamistici, usa-sionistici e anche russi, questi ultimi attraverso le basi militari in quella propaggine mediterranea che è il mar Nero a cui s'affaccia un'Eurasia caucasica cartina di tornasole dei rapporti di forza tra Washington e Mosca.
Il confine marittimo che separa il sud dell'Europa dal Magreb sta ribollendo, esattamente come tanti secoli fa e il fuoco che lo sta riscaldando è alimentato non solo dal petrolio ma anche da un mai domato ardore islamistico, d'espansione e di rivincita; senza contare che già un islam è presente in Europa (Bosnia, Albania e il banditesco regime del Kossovo), sia pur ridotto a far da bagascia degli interessi statunitensi.
Questo occorreva forse mettere in conto nel momento in cui ci si preparava ad intervenire; chiedersi se Gheddafi fosse o no il male minore e/o quali garanzie potesse fornire il partito avversario ai sia pur variegati interessi degli stati europei.

Occorrerebbe però sfilarsi le lenti, deformanti, della democrazia e dei diritti dell'uomo, che nelle relazioni internazionali - e men che meno nello scenario
libico - non contano un bel nulla e che infatti nessuno degli attori mondiali (Cina e Russia in primis) a differenza dell'Europa (che però è una debole comparsa) si sogna mai d'inforcare (gli Usa sì ma utilizzano lenti truccate) e guardare in faccia la realtá, che ci rivela cose piuttosto evidenti: primo, che l'islam, testa di ponte dell'islamismo, è già profondamente penetrato nei nostri territori e si sta riaffacciando sulla scena scaraventando sulla bilancia la propria forza demografica, una notevole aggressivitá spesso associata al fanatismo e, last but non least, la propria volontà di rivalsa.
Secondo, che in questa contrapposizione geopolitica gli Stati Uniti giocano un doppio gioco: da un lato guida e punta di lancia dell' "occidente" nella lotta al terrorismo internazionale, ruolo che permette a Washington di dettare bersagli e strategie ai suoi soci di minoranza e,dall'altro, alleato dell'islamismo sia in funzione anti-russa sia in funzione d'indebolimento del nostro continente sia in funzione di boicottaggio d'un possibile avvicinamento Mosca-Europa (Bosnia, Kosovo, Cecenia, pressioni su Bruxelles per l'entrata della Turchia in Europa).

E' per questo che l'operazione anti-Gheddafi sembra nascere sotto cattivi auspici: il dissenso tra le due maggiori potenze continentali, che sottolinea l'inesistenza dell'Europa come polo geopolitico, la presenza di Gran Bretagna e, soprattutto l'appoggio statunitense, finiranno per giovare principalmente al polo anglosassone e alla strategia statunitense di controllo delle fonti energetiche, il tutto ancora una volta mascherato da pretese umanitarie e cioè il soccorso alle popolazioni ribelli; e chissà se l'affannoso sgomitare italiano alla ricerca d'un ruolo di primo piano nell'operazione militare in corso potrà garantirci un domani il mantenimento dell'attuale approvvigionamento di petrolio libico.
E se riuscirà anche ad evitare quella apocalittica invasione - già profeticamente annunciata da Jean Raspail nel "Campo dei Santi" - che oggi non appare più come uno spettro lontano ma giá si mostra con reali ed angoscianti avvisaglie, segno premonitore della pesante recrudescenza d'uno scontro civilizzazionale
già ri-avviato e che rispetto a settecento anni fa ha solo cambiato tecniche di combattimento.
Ed i lampedusani se ne stanno accorgendo a proprie spese; abbandonati da uno Stato italiano incapace anche solo di biascicare la parola "no" poichè in coma irreversibile e da un'Europa ancora alla desolante ricerca di sé stessa, la loro coraggiosa reazione dimostra tuttavia che l'elettrocardiogramma della nazione non è ancora del tutto piatto.

giovedì 17 marzo 2011

ITALIA 1861-2011. COMPLEANNO O FUNERALE?

E' piuttosto zuccherosa la minestrina che ci hanno servito in questi giorni; come un melenso e precotto cenone di capodanno, quell'immancabile appuntamento dove il divertimento, più che garantito è obbligatorio, così è divenuto quasi un “must” proclamarsi fieri e gonfiare il petto d'orgoglio patrio in questo centocinquantesimo anniversario dello stato italiano.
Lasciando da parte tutte le pur legittime critiche di chi rammenta il peso degl'interessi stranieri nella costruzione della nostra unità, l'appoggio della massoneria, le losche imprese dell'eroe nazionale, la rapina perpetrata ai danni delle casse del sud, la sostanziale tiepidezza delle popolazioni che accettarono l'unità senza peraltro avervi contribuito, ciò che si va in giro domandando è se esista oggi in Italia un comune senso d'appartenenza che possa essere recuperato e proiettato verso il domani in una prospettiva di rinascita della nazione.
E' ciò che si afferma con perentoria sicurezza nell'editoriale odierno del Corriere della Sera, significativamente intitolato “orgoglio italiano” dove, citandosi i casi di Francia e Stati Uniti, già un tempo teatri di sanguinose guerre civili, di Spagna e Gran Bretagna, ancora scosse da cruenti tremiti separatisti, s'arriva alla confortante conclusione di come anche violenti contrasti all'interno delle nazioni non impediscano la possibilità di coesione e riconoscimento di valori condivisi.
A parte il fatto che in una Europa squassata da secoli di guerre religiose, civili, ideologiche gli unici “valori” che guidano una nazione sono quelli di chi l'ha spuntata e la favoletta della “condivisione” è un ingannevole ritornello preparato dai furbi per gli sciocchi, il paragone coll'Italia è comunque improponibile.
Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno in comune una vocazione imperiale (a modo suo anche la Spagna) o imperialista che ha determinato in esse una visione più ampia e comunque più complessa del loro divenire storico; Francia e Stati Uniti, in tempi e modi diversi, ma con una stessa impronta giacobina, hanno inteso esportare il modello che s'era affermato al loro interno, la prima cercando d'impiantare oltre confine il modello rivoluzionario/egualitario, sia nell'epoca napoleonica sia nelle successive imprese coloniali e i secondi inondando di “democrazia” e di prodotti usciti dalle loro fabbriche, il tutto garantito da governi-fantoccio, i territori che interessavano la loro strategia geopolitica. Più cinici ma senz'altro meno ipocriti gl'inglesi che, senza tanti contorcimenti ideologici, occupavano e feudalizzavano i dominions, rendendoli tributari ed associandoli al proprio destino.
La vocazione imperiale dà in ogni caso il senso d'una missione che va al di là dei secolari e mai spenti regolamenti di conti interni, sopisce l'incubo dei fantasmi familiari, dando sfogo ad energie e vitalità che altrimenti cozzerebbero l'una contro l'altre ed è un ottimo mezzo per garantirsi una discreta scorta d'indipendenza anche nei tempi di vacche magre.
Lo dimostra la Francia che, lacerata da una guerra civile non meno cruenta di quella italiana e da un dopoguerra ancor più colmo di vendette, grazie al fiuto di De Gaulle seppe sottrarsi al potere anglosassone già divenuto il centro politico e strategico del mondo europeo-occidentale mantenendosi potenza e garantendosi autonomi spazi di agibilità.
L'Italia, dopo gl'illusori fasti del fascismo e il sogno d'essere divenuta nazione di rilievo mondiale, rinasceva però coll'operosità, col senso del dovere e coll'iniziativa imprenditoriale; il nostro boom economico era la nostra piccola ma significativa ri-conquista del mondo e dimostrava che il nostro paese era ancora vivo.
Carenti in bellicosità, determinazione politica e volontà di dominio, gl'italiani – come i giapponesi a cui però quelle doti erano state espiantate colle tenaglie roventi – convertirono l'ancor fresca disciplina civica e militare in forza economica ed imprenditoriale.
Ma l'onda lunga per noi è già terminata ed il senso d'una patria condivisa, col suo bagaglio di civismo e di educazione collettiva che la grande guerra e i vent'anni successivi avevano iniettato nel sangue degl'italiani s'è già esaurito e tutto sta evaporandosi e non c'è bisogno di spiegazioni perché il nulla sta sotto gli occhi di tutti; la maggioranza silenziosa e lavoratrice, rispettosa e corretta di ieri, oggi è minoranza in un paese popolato da furbi, ruffiani, servi e cafoni e dove la misura della serietà la si coglie nel vedere la protesta studentesca capitanata da ventisettenni fuori corso di scienze politiche.
L'educazione a quei princìpi, i soli in grado di guidare una nazione poiché non fondati su basi ideologiche ma spirituali (amore per la patria, rispetto dell'autorità, spirito di sacrificio)non ci sono più, non sono più insegnati né predicati e chi li invoca fa la figura del cretino anzi probabilmente lo è.
Quindi l'Italia del 1861 è già defunta; pensavano di festeggiarne il compleanno mentre se n'è appena celebrato il funerale, alla presenza dei becchini – e di questa onorevole categoria posseggono solo il lugubre aspetto – Bruno Vespa, Pippo Baudo e Giorgio Napolitano, vedettes della serata televisiva che dei riti funebri italioti ha infatti assunto le tipiche grottesche sembianze: applausi scroscianti all'indirizzo del povero estinto, il tutto condito con un gigantesco e democratico karaoke cantato sulle note dell'inno di Mameli, evviva il morto! lunga vita al morto!

mercoledì 2 marzo 2011

"STATO" DI CONFUSIONE

Un'ordinanza emessa dal sindaco di Lampedusa, con cui si vietano bivacchi, assembramenti e deiezioni nei luoghi pubblici, motivata dai recenti massicci sbarchi di clandestini ha provocato la reazione della procura della Repubblica agrigentina; il p.m. ha immediatamente aperto un fascicolo a carico del primo cittadino prospettando a suo carico l'ipotesi di reato di "incitamento alla discriminazione razziale", poichè l'ordinanza era di fatto indirizzata agli extracomunitari, dunque a persone individuate in base alla loro origine etnico-geografica.
Ma a chi altri poteva mai essere rivolto un provvedimento del genere?
A meno di non ritenere gl'isolani adusi a bivaccare e a soddisfare i propri bisogni fisiologici in luoghi pubblici appare evidente che la misura adottata dal sindaco andava a soddisfare impellenti esigenze di profilassi e d'ordine pubblico, derivate dalla nuova ondata di sbarchi.
La ridicola iniziativa della procura della Repubblica di Agrigento fa il paio con le altrettanto folli decisioni di altre procure e di organi giudicanti di disapplicare la normativa penale sulla violazione dei decreti d'espulsione, determinando così l'inevitabile liberazione del clandestino.
Il caos è l'unica certezza che riusciamo a scovare sotto il cielo italiano.
Da un lato abbiamo una parte non trascurabile della magistratura la quale pretende di condizionare la politica, interpretando le leggi a modo suo e scegliendo quali reati perseguire e quali destinare alla prescrizione o all'oblio; è dall'epoca di "mani pulite" che il partito dei giudici ha assunto la configurazione d'un vero e proprio potere forte all'interno dello Stato; il "resistere resistere resistere" di Saverio Borrelli e degli altri procuratori milanesi fu un vero e proprio tentativo di golpe politico-giudiziario seguìto da una catena ininterrotta di inchieste contro Berlusconi e le sue aziende.
Le quali - intendiamoci bene - avranno tutte le colpe di questo mondo e saranno responsabili delle peggiori frodi e meritevoli di sacrosante punizioni ma nessuno puó negare che una giustizia cieca da un occhio NON è giustizia ma scelta politica.
Cooperative che godono di agevolazioni tributarie e che in realtá sono s.p.a. dissimulate, una banca centrale che tiene sotto scacco finanziario una nazione approfittando di assurde regole contabili di favore e che in tal modo sottrae al fisco e allo Stato decine di miliardi di euro ogni anno, l'evasione fiscale sui giochi d'azzardo telematici, un settore questo che vede gli schieramenti di destra e di sinistra dividersi una torta di centinaia di milioni di euro ogni anno; ecco alcune tra le tante belle inchieste che la magistratura, perfettamente al corrente di questi fatti, dovrebbe cominciare ad affrontare.
Iniziando a colpire senza sconti anche i piccoli reati; é da questi che si parte per arrivare a colpire il grande crimine organizzato. Il pesce grande ha necessitá del pesce piccolo e della sua rete di piccole ma diffuse clientele delinquenziali e semidelinquenziali; senza questo ossigeno che fa? Si mette a spacciare o ad estorcere direttamente lui?
Ma arrestare oscuri manovali del crimine non dá molta soddisfazione; molto meglio inventarsi un'ipotesi di reato contro un sindaco o spremere risorse, energie e personale investigativo per inchieste eclatanti e di risalto mediatico che, alla fine, come spesso s'è visto, partoriranno sorcetti.
Se la magistratura é divenuta un potere politico il governo, a sua volta, si é proprio recentemente esibito in una performance giurisdizionale, quella che ha visto la maggioranza votare, nel calderone del decreto "milleproroghe", l'interpretazione autentica - del tutto opposta a quella espressa dall'ultima sentenza della Cassazione civile che ancora una volta aveva bocciato le eccezioni di un istituto di credito - di una regola prescrizionale tesa a favorire il sistema bancario nelle migliaia di procedimenti instaurati dagli italiani per rientrare in possesso degl'illeciti guadagni che le banche avevano intascato frodando i propri clienti e le regole del codice civile.
Magistrati che fanno politica, parlamenti che emettono sentenze, governi che non governano.
Non c'é che dire, l'anno di celebrazione dell'unitá d'Italia comincia sotto i migliori auspici.

lunedì 28 febbraio 2011

LA CRISI LIBICA, aspirazione democratica o esplosione delle alleanze tribali?

di Bernard Lugan
Traduzione e diffusione autorizzate.
Tratto dal sito www.realpolitik.tv

Nessuno rimpiangerà il satrapo libico responsabile di molti attentati, d'innumerevoli crimini e della destabilizzazione d'intere regioni dell'Africa. Ciò detto lasciamo il dato emozionale ai cultori del superficiale e il deliquio ai giornalisti per interessarci della realtà. La fine di Gheddafi, che rischia d'avere conseguenze di cui noi siamo ben lontani dal misurarne l'ampiezza, è in effetti assai meno legata ad un'aspirazione democratica popolare piuttosto che alla manifestazione dell'esplosione dell'alchimia tribale sulla quale riposava il suo potere.
A differenza di Tunisia ed Egitto, la Libia di cui più del 90% del territorio é desertico, non é in effetti uno Stato ma un conglomerato di più di 150 tribù divise in sotto-tribù e in clan. Questi gruppi hanno delle alleanze tradizionali e mutevoli nel seno delle tre regioni che compongono il paese, ossia la Tripolitania con la città di Tripoli che s'affaccia verso Tunisi, la Cirenaica la cui capitale é Bengasi e che é rivolta verso il Cairo e la regione di Fezzan, la cui principale città é Sebba e che si protende verso il bacino del Ciad e l'ansa del Niger.
Dall'indipendenza della Libia del 1951 fino al colpo di Stato che portò il colonnello Gheddafi al potere nel 1969, la Libia fu una monarchia diretta dalle tribù cirenaiche. Membro d'una piccola tribù di cammellieri beduini, il colonnello Gheddafi fu portato al potere da una giunta militare multi-tribale ma nella quale dominavano le due principali tribù della Libia, quella dei Warfallah di Cirenaica e quella dei Megahra di Tripolitania. La maggior parte delle tribù di Cirenaica rimaneva però attaccata alla monarchia e così il colonnello Gheddafi si produsse in una grande mossa politica sposando una giovane donna del clan dei Firkeche, membro questo della tribù reale dei Barasa, ciò che gli assicurò l'adesione della ribelle Cirenaica.
Orbene, oggi é tutto il suo sistema d'alleanza colla Cirenaica che é volato in pezzi. La data cruciale dello smembramento tribale del sistema Gheddafi è il 1993 quando un colpo di Stato dei Warfallah fu annegato nel sangue. Gli odi furono in seguito smorzati tanto forte fu il terrore imposto dal regime ma le tribù di Cirenaica non attendevano che un'occasione per rivoltarsi e questa s'é presentata nel mese di febbraio del 2011. Esse si sono così impadronite della regione sfoggiando la bandiera dell'antica monarchia.
Gheddafi ha certamente perduto la Cirenaica, come i turchi e gl'italiani prima di lui, ma gli resta la Tripolitania ed il Fezzan. In queste due regioni il regime aveva ugualmente costituito delle sottili alleanze tribali. Nel momento in cui queste righe sono scritte, ossia il 27 febbraio 2011, certe tribù hanno lasciato il campo di Gheddafi ma le grandi solidarietà restano seppur vacillanti.
A corto termine, il principale pericolo che minaccia il colonnello Gheddafi non è la Cirenaica separata da più di 1.000 chilometri di deserto da Tripoli; neppure é il surreale esercito libico e ancor meno i volontari che si vedono sfilare nelle vie di Bengasi o di Tobruk. Tutto è in effetti sospeso al filo delle scelte che faranno i capi della tribù guerriera del Megahra che domina in Tripolitania. A lungo alleata a quella di Gheddafi, i Khadidja, essa fornì un tempo il numero due del regime, nella persona del comandante Abdeslam Jalloud prima della sua caduta in disgrazia del 1993 allorchè fu sospettato d'aver intrattenuto dei legami coi putschisti Warfallah. Se i Megahra restano leali o anche assumono una posizione di neutralità, Gheddafi potrà mantenersi ancora per un certo periodo al potere su una parte del paese. In caso contrario, si troverà allora davvero in difficoltà e sarà costretto a ripiegarsi verso la sua sola tribù, la quale non schiera che 150.000 membri.
Se i Meghara abbandonassero Gheddafi ciò vorrebbe dire ch'essi hanno intenzione d'impadronirsi del potere e la Libia sarebbe tagliata in due, Tripolitania e Cirenaica venendosi a trovare dominate dalle alleanze tribali costituite intorno ai Wafallah e ai Meghara. La questione che si porrebbe allora sarebbe quella della sopravvivenza dello Stato Libico.
Questi due insiemi si combatteranno o si divideranno il potere in un quadro federale o confederale? Lo ignoriamo ma il pericolo é di veder apparire una situazione di guerre tribali e di clan come in Somalia. Esse potrebbero essere seguite dall'esplosione in più regioni, ciò che aprirebbe uno spazio insperato per AQMI - Al Qaeda del Magreb Islamico - che troverebbe terreno fertile in mezzo al caos e, in più, nel sud del paese, una dissidenza della popolazione toubou che avrebbe delle ripercussioni nel Ciad, ed iniziative tuareg alle quali potrebbero appoggiarsi l'irredentismo tuareg del Mali e del Niger; senza parlare, naturalmente, delle conseguenze sulle politiche petrolifere che deriverebbero da un simile conflitto.

martedì 15 febbraio 2011

ITALIA ED EUROPA ASSENTI INGIUSTIFICATE

Il ministro Maroni ha bacchettato le istituzioni europee colpevoli d'aver lasciata l'Italia sola a gestire l'emergenza dei profughi della crisi sudmediterranea.
Gli sbarchi di tunisini ed algerini, giá arrivati oltre il numero di quasi seimila nello spazio d'un mese consentono una proiezione di circa ottantamila nuovi arrivi nel giro d'un anno, una vera e propria "calamitá" umanitaria.
Maroni ha ragione ed ha torto.
Ha torto quando autoassolve il proprio ministero; un governo che si rispetti deve essere in grado d'analizzare gli eventi, prevederne le conseguenze ed apprestare tutte le misure necessarie a scongiurarne gli effetti piú pericolosi.
Sono ormai due mesi che Tunisia ed Algeria, e non solo loro, sono infiammate da pesanti disordini e non ci voleva certo un esperto uscito dalla War Academy di West Point per capire che quelli potevano costituire una buona ragione (o forse sarebbe meglio parlare di buon pretesto, ma l'effetto non cambia) per esodi e fughe "verso la libertà".
Abbiamo un alleato - almeno così ci viene presentato - Gheddafi, a cui abbiamo promesso soldi ed aiuti affinché la Libia funga in qualche modo da guardiacoste delle rive nordafricane, per frenare la partenza d'indesiderati clandestini verso le nostre spiagge.
Un governo previdente avrebbe dovuto, alle prime avvisaglie della crisi tunisina, predisporre piani di dirottamento ed accoglienza dei fuggitivi verso le coste libiche e gestire là, lontano da casa nostra, la situazione.
Sarebbe bastata una minima volontá politica, unita a buoni canali informativi e a qualche motovedetta piazzata al largo delle coste tunisine per tenere alla larga la prospettiva, prevedibile ed imminente, della calamitá umanitaria.
Il confine lo si comincia a difendere oltre il confine.
Ma la volontá e la competenza, al pari del coraggio come diceva Don Abbondio, se non le si hanno non ce le si puó dare e Maroni, a cui non puó essere addebitato tutto il peso di questa situazione, fa il fuoco colla legna che si ritrova.
Il nostro ministro dell'Interno ha peró ragione nell'accusare le istituzioni europee di totale indifferenza per quanto l'Italia potrá andare a subire nei prossimi mesi.
Se il nostro paese subisce le conseguenze d'un vero e proprio deficit di credibilitá sul piano internazionale, che il ridente satrapo di Arcore ha contribuito in maniera decisiva a creare colla sua congenita mancanza di serietà, ció che rende l'Italia, perlomeno come peso diplomatico-politico, un paese a livello di terzo mondo, l'Europa ha lei stessa voluto imboccare la strada d'un basso se non nullo profilo di politica estera.
Prima potenza industriale ed economica del mondo, con un grado di progresso sociale senza eguali, l'Europa sembra aver rinunciato ad assumere un ruolo geopolitico di rilievo in questo mondo ormai sempre pìú multipolare.
Non ci rinunciano, beninteso, Gran Bretagna (per quanto di europeo essa abbia ben poco), Francia e Germania, queste ultime non a caso avendo stretto sempre di piú importanti contatti, economici e militari, colla Russia.
Ma lo fanno loro, non l'Europa; forti della loro secolare esperienza politica hanno ben capito che questa mastodontica realtá é come un bue; forte, resistente e (economicamente) trainante ma senza gli attributi.
Questo enorme spazio socio-economico, (con tutti i suoi enormi difetti, sia chiaro) é forte, ricco, civilmente e socialmente progredito (perlomeno se paragonato al resto del mondo) ma ha perso in agilitá a causa d'una burocrazia ossessiva e parassitaria che gli ha succhiato ció che sempre aveva posseduto: la volontá, la capacitá di darsi un destino, il senso della propria esistenza.
Non piú capi di Stato ma burocrati, non piú politici ma banchieri, non piú strateghi ma funzionari.
Senza i primi, infatti, sono i secondi a comandare.
L'Europa ha insomma perduto quello che Aymeric Chauprade chiama l' "orizzonte di guerra"; che non significa volere la guerra, auspicare o praticare politiche d'aggressione, tenere atteggiamenti bellicosi; nossignore, significa mantenere come ultima opzione, ed essere disposti ad adottarla ove il caso l'imponga, l'uso della forza sapendo che i propri interlocutori ne hanno piena consapevolezza.
Un "orizzonte di guerra" ce l'hanno gli Stati Uniti e i loro alleati anglosassoni, ce l'ha la Russia, ce l'ha la Cina, ce l'ha Israele, ce l'ha l'India, ce l'hanno molte nazioni dell'area islamica.
Mentre L'Europa, quando ha mandato in giro i propri soldati (e il punto qui non é se era giusto o sbagliato), l'ha fatto nascondendosi sotto le gonne dello zio Sam, strillando che erano "missioni di pace".
Che se ne fa del suo acciaio, della sua produzione industriale, del suo sviluppo tecnologico, della sua laboriositá, del suo progresso sociale, dei suoi cervelli, della sua bimillenaria civiltá se, accanto a tutte queste belle cose non é capace, quando occorre, di sbattere i pugni sul tavolo per farsi rispettare? E di farlo soprattutto in prima persona?
Potrebbe essere forte, agile e incutere timore come un toro ma qui abbiamo solo un bue, ubbidiente e massiccio ma soprattutto appesantito, rassegnato e catatonico.

lunedì 14 febbraio 2011

L'OLOCAUSTO DELL'ARIA. DRESDA 13-14 FEBBRAIO 1945

Si era ultimamente udita la vergognosa panzana di qualche imbecille secondo cui il criminale bombardamento di Dresda avrebbe costituito una sorta di rappresaglia conseguente alla scoperta degli orrori del campo di concentramento di Auschwitz, all'arrivo delle truppe sovietiche il 27 gennaio.
Panzana, perché la strategia terroristica inglese prima e angloamericana poi era giá iniziata fin dalla salita al potere di Winston Churchill, il 10 maggio 1940.
Fino a quel momento nessuno dei contendenti aveva attaccato "espressamente" la popolazione civile; la notte dell'11 maggio 1940 trentasei bombardieri inglesi iniziarono la strage di civili portandosi sopra München-Gladbach, in Westfalia. Gli attacchi tedeschi contro Londra non solo furono di quattro mesi successivi (7 settembre 1940) al primo attacco inglese ma furono preceduti dall' avvertimento tedesco, dopo il sesto bombardamento subìto da Berlino, che in caso di nuovi attacchi contro la popolazione civile sarebbe scattata la reazione.
Ben prima dell'apertura dei cancelli del campo di Auschwitz la RAF s'era adoperata con sadica dedizione a scatenare la propria furia sulla cittá d'Amburgo dove, a partire dalla notte del 24 luglio fino al 2 agosto del 1943, furono scaricate ottantamila bombe dirompenti, ottantamila al fosforo liquido e cinquemila bidoni di fosforo liquido; metá delle case della cittá furono distrutte; 50.000 le vittime immediate degli attacchi, nella stragrande maggioranza bruciati vivi, 125.000 i feriti ed ustionati di cui 50.000 deceduti nei giorni successivi.
Vergognosa, poiché solo una dev'essere la tragedia da ricordare (indovinate quale), mentre tutte le altre o non debbono costituire motivo per "rimanere ostaggi del passato" (Napolitano dixit) o, comunque, possono e/o debbono trovare una esigenza di "contestualizzazione" storica (la lotta contro la barbarie nazi/fascista, la reazione, l'esasperazione, la democrazia etc etc etc).
La campagna di annientamento del territorio e della popolazione tedesca continuó trionfante nei mesi successivi; in quella stessa estate Bochum, Dusseldorf, Remscheid, Darmstadt, Strasburgo, Brema, Kassel, Francoforte, Mannheim, Stoccarda, Monaco, Norimberga, Aquisgrana, Hagen, Münster furono piú volte visitate dai bombardieri del maresciallo Harris, il macellaio di fiducia di Sua Maestá.
Dal 18 novembre di quell'anno fino al marzo del 1944 Berlino fu continuamente devastata da attacchi terroristici e Lipsia subì un durissimo bombardamento il 3 dicembre 1943.
Una frenesia distruttrice, una libidine di odio e di volontá d'annientamento, meritevoli d'una indagine psichiatrica, s'impadronirono del boia Harris e del suo degno compare statunitense Spatz.
Piú la Germania s'indeboliva di fronte alla coalizione avversaria, piú la ferocia aumentava d'intensitá.
Alla fine del 1944 furono bombardate la Friburgo tedesca e, forse per non sbagliarsi, anche quella svizzera; Colonia, Duisburg, Essen, Düsseldorf, Ulm, Stoccarda, Karlsruhe, Heilbronn, Ludwigshaven, Saarbrücken, Norimberga, Monaco, Bonn, Coblenza, Brema, Wilhelmshaven, Braunschweig, Osnabrück, Münster, Giessen, Düren negli ultimi mesi del 1944 furono annientate da tonnellate di bombe scagliate dai "liberators" democratici.
Dresda era un bersaglio appetibile; era popolata da centinaia di migliaia di profughi fuggiti da est all'arrivo dell'Armata Rossa.
Così scrive Piero Buscaroli: "Churchill aveva fretta, stava preparandosi a partire per Malta prima e poi per Yalta e voleva fare un figurone con Stalin. Era convinto che una carneficina di gente così poco entusiasta d'essere liberata dal suo esercito non potesse che fargli piacere. Convocò il segretario di Stato dell'aria, Sir Archibald Sinclair, e gli domandò se non si 'sentisse una voglia matta di rompere le ossa a tutti quei profughi'.
Per via gerarchica, dal capo di stato maggiore Sir Charles Portal, al suo vice Sir Norman Bottomley, l'ordine raggiunse Arthur Travers Harris, che trovò Dresda l'obbiettivo ideale. Lui e il suo socio americano James Doolittle avevano appena saputo che ai 630.000 abitanti di Dresda si era aggiunti mezzo milione di rifugiati".
Con l'aiuto dei loro soci d'affari statunitensi, la RAF uccise, in quattordici ore da cento a duecentomila civili innocenti; ma potrebbero essere anche di piú secondo la Croce Rossa internazionale di Ginevra. Il calcolo era reso impossibile dell'incenerimento di decine di migliaia di vittime e dalla presenza massiccia e non registrata di centinaia di migliaia di profughi tedeschi provenienti dall'est.
Grazie ai bidoni di fosforo e alle 650.000 bombe e spezzoni incendiari, il fuoco divenne rogo, la morte agonia, la distruzione incenerimento. Tutte le decine di migliaia di persone impregnate dal fosforo rovesciato a torrenti sulle case, sulle strade, in ogni angolo della cittá, persino all'interno dei rifugi erano diventate torce viventi
Dresda era cittá aperta, destinata all'accoglienza dei profughi e non era stata apprestata alcuna difesa. Gl'incendi arrostivano l'aria che, bruciando, provocava uragani di vento infuocato a duecento chilometri all'ora e alla temperatura di mille gradi.
Varie ondate di attacchi terroristici annientarono case, colonne di soccorso, ambulanze, pompieri. La cittá era piena di corpi appiccicati sull'asfalto, bruciati, carbonizzati, triturati, masse irriconoscibili, miseri mucchi di cenere, ossa e grasso.
Le fiamme si scorgevano sino a 200 chilometri di distanza mentre le ondate successive di caccia cercarono di terminare con cura il precedente lavoro dei bombardieri andando a mitragliare i gruppi di persone in fuga dalla cittá; bersaglio dei caccia statunitensi fu la folla che stava attraversando il giardino zoologico "Così trovò la morte la nostra ultima giraffa" raccontó il guardiano.
Dresda brució per sette giorni interi e la ricerca dei cadaveri duró piú d'un mese; non bastarono le fosse comuni a garantire sepoltura alle vittime; si dovettero allestire enormi pire al centro della cittá dove venivano accatastati migliaia di cadaveri informi che bruciarono per settimane e settimane.
Ad ereditare la devastazione provocata dai loro criminali utili idioti alleati occidentali arrivó l'Armata Rossa che poté così impadronirsi delle decine di migliaia di ori e preziosi trovati addosso ai morti e che la pignola burocrazia tedesca aveva minuziosamente inventariato.
Arthur Travers Harris ottenne il titolo di "Sir" nel 1953; di fronte alle accuse che provenivano anche dal suo paese, questo solerte macellaio rispose che la strategia terroristica dei bombardamenti era stata decisa dal governo e che lui s'era limitato ad obbedire agli ordini che provenivano dal ministero.
Le stesse parole che tanti sottufficiali e ufficiali della Wehrmacht opposero invano ai tribunali che li giudicarono per atti molto meno atroci ed osceni di quelli compiuti dai gangster volanti angloamericani.

fonti: Fernando Ritter "Fascismo e antifascismo, Milano, 1992; Piero Buscaroli "Dalla parte dei vinti", Milano 2010.