venerdì 23 dicembre 2011

LA CRISI ISRAELE-TURCHIA E LE CONSEGUENZE REGIONALI

La crisi Israele-Turchia e le conseguenze regionali (Medio-Oriente, Unione europea)
di Aymeric Chauprade
La Turchia, nella prospettiva di diventare membro della NATO (vi fu ammessa nel 1952), è stato il primo paese musulmano a riconoscere Israele nel 1949. Essa fu, per tutto il corso della guerra fredda, una fortezza militaire del dispositivo americano in Eurasia. All'inizio degli anni novanta, la geopolitica americana le offrì un ruolo ancora più importante : divenire la potenza tutelare d’un grande Medio Oriente americano, continuare a sostenere Israele contro il nazionalismo arabo, impedire la formazione d’una Europa potenza indipendente attraverso la sua integrazione nell’Unione europea, contenere l'influenza della Russia nel Caucaso e nell' Asia centrale turcofone, sostenere il separatismo degli Ouïghours nel Turkestan cinese e infine aiutare Washington, a detrimento di Mosca, a controllare le vie di passaggio del petrolio e del gas dal mar Caspio e dall’Asia centrale.
Ma, nel corso degli anni 1990, apparvero i primi segni anticipatori che una Turchia islamista non si sarebbe lasciata rinchiudere nel ruolo d'alleato geopolitico degli Stati Uniti. Necmetin Erbakan e il suo partito (Refah) che tentava all'interno una rottura radicale col kemalismo, manifestò all'esterno la propria ostiità all’Occidente (« Noi non siamo occidentali, noi non siamo europei ») ed a questo « club cristiano sotto influenza massonica » che costituiva ai suoi occhi l’Unione europea.
Ahmet Davutoglu, il brillante ministro degli affari esteri d’Erdogan è oggi il difensore più emblematico di questo nuovo atteggiamento turco nelle relazioni internazionali, fondato sullo « choc delle civilizzazioni ». Rompendo con la politica dello Stato-Nazione e riprendendo l'idea d'impero, Davutoglu mira alla restaurazione dello splendore ottomano. E tutto ciò passa, almeno apparentemente, attraverso il sacrificio della relazione con lo stato d' Israele.
Dieci anni dopo gl'importanti accordi bilaterali di difesa tra Tel-Aviv ed Ankara, dunque a partire dal 2006 e la vittoria elettorale dell’AKP, il partito islamista turco, le relazioni fra i due paesi cominciano a complicarsi. In quell'anno la Turchia decide d'accogliere il dirigente di Hamas Khaled Mechaal. Il 30 gennaio 2009, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, a Davos (Svizzera), si rivolge bruscamente al presidente israeliano Shimon Peres sulla questione di Gaza. L' 8 aprile 2010  lo stesso Erdogan qualifica Israele come « principale minaccia per la pace in Medio-Oriente ». Il 17 maggio 2010, Israele attacca pesantemente l’accordo sul nucleare firmato da Iran, Turchia e Brasile. Poi, nello stesso mese accade l'episodio della "flottiglia umanitaria" che cerca di rompere l’embargo su Gaza e dove alcuni turchi vengono uccisi. Il 31 maggio 2010, la Turchia richiama il proprio ambasciatore e avvisa Tel-Aviv di conseguenze irreparabili nelle relazioni bilaterali. A partire da questo momento, i rapporti tra i due alleati strategici volgono al peggio. Israele rifiuta di scusarsi (per non esporre i suoi militari a conseguenze giudiziarie) e la Turchia si ostina a pretendere scuse e riparazioni finanziarie. All'inizio di settembre 2011, la Turchia espelle l'ambasciatore d'Israele mentre Erdogan minaccia di fare scortare militarmente le navi turche che volessero raggiungere Gaza. Israele è anche accusata dal premier turco di mancanza di lealtà nell' applicazione degli accordi di difesa ; secondo lui, gli israeliani si rifiuterebbero di restituire i droni venduti ai turchi che si trovano in manutenzione presso di loro. Il 6 settembre 2011, il primo ministro turco annuncia la rottura degli scambi militari. Israele si rivolge allora alla Romania e alla Grecia alla ricerca di aree militari d'addestramento. Da parte sua, la marina turca riceve l'ordine d'essere più « attiva e vigilante » nel Mediterraneo orientale. Israele, che tiene al suo alleato turco e teme l’isolamento nel Medio-Oriente, tenta di calmare i turchi senza peraltro cedere alle loro pretese di scuse.  Ehud Barak non smette di riaffermare la propria amicizia verso i turchi e di avvertire che la crisi non è che passeggera. I turchi rifiutano l'insistente mediazione americana e moltiplicano le dichiarazioni di sostegno ai palestinesi e di condanna della minaccia nucleare che rappresenterebbe Israele nel Medio Oriente (Erdogan stigmatizza ancora il pericolo della forza nucleare israeliana, il 5 ottobre 2011, in Africa del Sud), accogliendo ultimamente une decina di detenuti palestinesi scarcerati in cambio della liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit.
La questione che si pone è dunque la seguente : la Turchia degli islamisti sta veramente per spezzare la solida alleanza stretta durante il regime kemalista? Apparentemente tutto sembra indicarlo. Ciò nonostante, molti elementi contraddicono questa apparenza. In primo luogo, gli scambi commerciali non hanno smesso di crescere fra Israele e la Turchia dall’importante accordo di libero-scambio sottoscritto tra i due paesi nel 1997, e sono rimasti molto forti anche dall'inizio del 2011. In secondo luogo, sul piano geopolitico, la strategia neo ottomana elaborata da Ahmet Davutoglu si rivolge ben più contro l’influenza dell’Iran, dell’Egitto e dell’Arabia Saudita nel mondo arabo che contro Israele. Con le primavere arabe e la ricomposizione del Medio-Oriente, si gioca una partita silenziosa ma intensa tra le potenze arabe sunnite, il polo iraniano e il polo turco. Israele e Turchia restano uniti dalla stessa volontà di bloccare i rifornimenti d’armi iraniane alla Siria. La Turchia disputa all’Iran, all’Egitto e all’Arabia Saudita la loro influenza sui palestinesi di Gaza. Ankara tenta d'imporsi come modello di « governo islamico saggio » difeso dai Fratelli musulmani in numerosi paesi arabi sunniti. Niente vieta dunque l'ipotesi d’una commedia di facciata tra israeliani e turchi, che obbedisca agli obbiettivi comuni di contenere l’influenza dell’Iran e dell’Arabia Saudita e di far sì che l’Egitto mantenga il trattato di pace con Israele favorendo l'emergenza d’un governo debole incapace d'intraprendere iniziative politiche di peso . Ed allora la domanda :  continuità o rottura ? Stando alle parole e agli atti diplomatici, la seconda ipotesi sembrerebbe evidente. Ma nelle strategie d' "intelligence", delle attività occulte e delle finalità geopolitiche profonde, nulla è meno sicuro.
La nostra ipotesi è che la nuova politica neo ottomana avrà maggior impatto sul posizionamento turco rispetto ai progetti degli europei, dell’Unione europea, dell’Unione per il Mediterraneo, che con riguardo ad Israele. L’Unione per il Mediterraneo non esiste più dalla fine dei regimi di Moubarak e di Ben Ali poiché essa si fondava sostanzialmente sulle relazioni personali de dei due presidenti con il presidente francese. Quanto all’Unione europea, presa dalle sue importanti contraddizioni economiche (differenze di livello economico tra i suoi membri) essa non può più ormai concedersi il lusso d'aggiungerci le proprie contraddizioni geopolitiche (la Turchia non appartiene alla civilizzazione europea). Se l’Unione sopravviverà alla crisi attuale, probabilmente si rifonderà su basi economiche e geopolitiche più coerenti. Occorre dunque guardare la Turchia come un grande paese emergente che, come il Brasile, farà sempre di più una politica propria e cercherà di giocare la carta del neo ottomanesimo verso i sunniti del mondo arabo, proponendosi in particolare come Islam « saggio», in opposizione al wahhabismo saudita, e che svolgerà un ruolo di mediazione in Asia centrale e in Iran. La raffinatezza del gioco turco dovrebbe implicare che sia mantenuta, anche in maniera sotterranea, e dietro la facciata dell’ideologia islamica e pro palestinese, la carta strategica israeliana.

martedì 20 dicembre 2011

IL SECOLO DELLE BANCHE

André Gandillon, Rivarol 9.12.2001

Quando vogliamo comprendere la crisi finanziaria e, quindi, economica, appare insufficiente attenersi agli aspetti tecnici e teorici del problema. E' indispensabile conoscerne le sfaccettature storiche e politiche.

LA CRISI DEL 1908 NEGLI STATI UNITI E LE SUE CONSEGUENZE

Dobbiamo allora tornare un secolo indietro negli Stati Uniti. Dal 19º secolo, e nei manuali d'economia, si distinguono nella teoria le "banche d'affari" (o "Alte banche") che conducono delle operazioni finanziarie col loro danaro e le "banche di deposito" che fanno lavorare il danaro della loro clientela. Tuttavia, dal 1913, colla creazione del sistema di Riserva Federale degli Stati Uniti (o Fed), questa distinzione ha avuto sempre meno ragion d'essere poichè le banche d'affari hanno progressivamente dominato le banche di deposito e, oltre alla loro attività speculatrice, si sono autoconcesse il privilegio quasi esclusivo della creazione monetaria, spossessandone gli Stati (soprattutto dopo la soppressione del Glass Steagall Act nel 1980 che, dal 1933, separava banche di deposito e banche d'affari) e, conseguentemente, disputando loro la sovranità politica.
Che è successo allora negli Stati Uniti? Le crisi finanziarie degli anni 1873, 1893 e 1907, provocate dalle trame d'avventurieri della finanza, anzi di banchieri internazionali che a quel tempo operavano da Londra, avevano fatto sorgere la necessità di creare una banca centrale di riserva negli Stati Uniti che ne erano privi da quando nel 1836 il loro presidente Andrew Jackson non aveva rinnovato l'autorizzazione alla - così si chiamava - "Second Bank of United States" che riceveva in deposito i fondi federali.
Durante la crisi del 1893-1895, il fallimento statunitense era stato evitato da John Pierpont Morgan, il più importante banchiere ed industriale degli Stati Uniti appoggiato ad un gruppo di banchieri europei, operazione che aveva portato nelle loro casse 16 milioni di dollari d'interessi a fronte d'un prestito di 65 milioni di dollari. Nel 1907, Morgan, più potente che mai fu di nuovo chiamato al soccorso e per la seconda volta ristabilì la situazione con l'aiuto di John D.Rockfeller e di Lord Rothschild. J.P.Morgan era l'erede di Junius Morgan che aveva ripreso in mano la banca Peabody creata negli anni 1820-1830 da George Peabody col concorso del barone Nathan Mayer Rothschild di Londra.
La necessità d'una banca centrale si fece dunque più pressante che mai.

LA CREAZIONE DELLA FED

I banchieri privati, in posizione di potenza, fecero in modo che l'indispensabile riforma bancaria di cui avevano bisogno gli Stati Uniti si realizzasse a proprio vantaggio.
Una "Commissione monetaria nazionale" (CMN) presieduta da Nelson Aldrich, capo della maggioranza repubblicana al Senato, fu costituita per redigere un progetto di banca di riserva nazionale. Orbene, nel novembre 1910, Aldrich convocò al club di Jekyll Island, sulla costa della Georgia, una conferenza che fu tenuta segreta radunando i più eminenti finanzieri americani in vista di elaborare quel progetto. La testa pensante, data la sua competenza tecnica, fu Paul Warburg (rappresentante della Kuhn, Loeb & Co.) proveniente dalla Germania e da poco naturalizzato americano.
Il progetto fu strutturato in maniera tale che la banca di riserva fosse anche una banca d'emissione i cui amministratori dovevano essere designati dal presidente americano e sottoposti all'approvazione del Congresso (camera dei rappresentanti e Senato).
Tutto ciò era però anticostituzionale poiché secondo l'articolo 1, sezione 8 par.5 della Costituzione, solo il Congresso possiede il "potere di battere moneta e regolarne il valore", ciò che vale ad escludere ogni istituzione bancaria indipendente.
Non soltanto la futura banca poteva battere moneta ma il potere legislativo - dunque lo Stato federale - era spossessato di fatto del proprio potere sovrano monetario.
Fu inoltre prevista la costituzione d'un sistema di banche di riserva regionali (dodici nel progetto definitivo) che formassero la Riserva federale, allo scopo di mascherare il potere di fatto che deteneva la Riserva federale di New York, dove erano accentrati i principali banchieri degli Stati Uniti.
Le azioni di ciascuna delle dodici banche di riserva - che si dividevano senza limiti territoriali i 48, e poi 50, stati federati - erano in possesso delle banche locali che ne erano divenute socie ma in pratica, dato il peso della sua capitalizzazione e quello dei suoi azionisti, contava in misura preponderante la sola banca di riserva federale di New York.
Inoltre, gli amministratori della banca sfuggivano sostanzialmente al controllo del potere politico attraverso un'ingegnosa organizzazione che ne manteneva però le apparenze. Per esempio il mandato dei membri del "board" poteva durare fino a 14 anni, ossia quanto tre mandati presidenziali.
Il rapporto finale della CMN apparve l'11 gennaio 1911. Dopo lunghe discussioni ed i ritardi dovuti all'elezioni presidenziali del 1911 che videro la vittoria di Woodrow Wilson, il 22 dicembre 1913 fu votata la legge Glass che creava il sistema di Riserva federale (Federal Reserve Act), firmato con una eccezionale celerità il 24 dicembre 1913 da Wilson. Ciò era stato reso possibile, nonostante le resistenze di qualche parlamentare che aveva visto giusto, per le discrete e capaci influenze dei circoli finanziari newyorkesi, l'apparente complessità della questione e l'indifferenza del popolo americano.
Nell'occasione, il deputato Charles Lindbergh riassunse lo spirito della legge (New York Times del 21 dicembre 1913) dichiarando alla Camera dei rappresentanti che "questa legge stabilisce il trust più potente della terra".
Tra gli azionisti vi erano: Goldman Sachs, City Bank, National Bank of North America (filiale della Westminster Bank), Kuhn & Loeb e Lehman Brothers (fatta a pezzi dai suoi concorrenti nel 2008), il gruppo Chemical Bank Morgan Chase Bank (nato dalla fusione Morgan GT e Chase Manhattan Bank.
Nel luglio del 1914, nell' Indipendent, Nelson Aldrich confermò le parole di Lindbergh: "Prima del voto di questa legge, i banchieri newyorkesi non potevano dominare che le riserve di New York. Ora, noi possiamo dominare le riserve bancarie di tutti gli Stati Uniti".
In effetti, gli Stati Uniti disponevano d'una banca centrale, però detenuta da azionisti privati che assicuravano in ultima battuta il finanziamento dell'Unione. A quell'epoca anche la banca di Francia aveva azionisti privati - le duecento famiglie fondatrici del Primo Impero - ma era però sottomessa al controllo dello Stato.
Inoltre, tra gli azionisti della Riserva federale di New York figuravano delle banche estere, filiali di banche europee, principalmente londinesi, come la banca Rothschild. La Fed rappresentava dunque - e rappresenta oggi - degli interessi che superano largamente quelli degli Stati Uniti, tanto importante è il legame tra Wall Street e la City.
Così gli Stati Uniti dispongono ancora oggi d'una banca centrale i cui azionisti sono privati, percepiscono una rendita dai crediti accordati con interessi agli agenti economici, ne controllano le risorse finanziarie ed il loro impiego per concedere crediti agli stati esteri.
L'emendamento Edge del 24 dicembre 1919 rafforzerà quest'ultima facoltà autorizzando le banche nazionali a creare delle società in vista di eventuali iniziative creditizie internazionali, in oro o in titoli.

IL DEBITO, FONTE DI POTENZA

Ormai il debito diveniva la base della creazione monetaria: è questo sistema che si è generalizzato a tutto l'Occidente a partire dagli anni 1970-1980, gli Stati affossando la propria sovranità monetaria e inibendosi l'autofinanziamento per non ricorrere che al prestito sui mercati finanziari. Coloro che detengono questo potere di creazione monetaria ex nihilo possono controllare il mondo specialmente se, non contenti di finanziare il settore privato, agiscono in tal modo anche in quello pubblico.
Disponendo d'un tale potere, appoggiato ad una economia divenuta la più potente del mondo (a dispetto del suo attuale declino), era naturale che questo gruppo di qualche decina di persone cercasse di estenderlo ai limiti del mondo economico planetario; ciò che noi cerchiamo di ritracciare a grandi linee attraverso l'esposizione di alcuni fatti salienti.
La Grande Guerra permise a questi banchieri d'estendere la loro potenza attraverso il finanziamento dei belligeranti, essenzialmente gli Stati dell'Intesa ma anche il Reich e la Russia bolscevica. Wilson stesso inviò in Russia Elihu Roth con 100 milioni di dollari tratti dal Fondo Speciale d'Urgenza di Guerra al fine di evitare lo scacco del regime leninista. D'altronde, a partire dal 1917, durante la guerra egli consegnò il governo di fatto degli Stati Uniti ai suoi finanzieri: Bernard Baruch, che presiedette il Consiglio delle industrie di guerra, Eugene Mayer, che diresse la Società di finanziamento della guerra, mentre Paul Warburg organizzava questo finanziamento.
La guerra 1914-1918 diede agli Stati Uniti lo statuto di nazione creditrice del mondo, soppiantando allora la Gran Bretagna e facendo del dollaro il riferimento mondiale.
Dopo la guerra, nel 1920, i banchieri newyorkesi precipitarono l'agricoltura nella crisi, contraendo bruscamente il credito, allora in imprudente espansione, accordato agli agricoltori che avevano sviluppato la loro prosperità durante la guerra, creando milioni di disoccupati, e ciò allo scopo di colpire le banche locali degli Stati, i cui attivi riposavano sul capitale fondiario della "provincia profonda", che avevano rifiutato sino ad allora di cedere. Era stato sufficiente al riguardo rialzare rapidamente il tasso di sconto della riserva federale, mentre gli industriali beneficiavano di crediti agevolati che consentirono loro d'evitare gli effetti di questa misura.

LA CRISI DEL 1929

Lo stesso accadde per la crisi del '29. Certamente una bolla speculativa s'era sviluppata nel corso degli anni 1926-1929, favorita da un rapido sviluppo economico, mentre le rendite distribuite dalla produzione crescevano meno velocemente che questa, alimentando la richiesta di credito necessaria a smaltirla.
Già l'economia agli inizi del 1929 dava segni di stanchezza, in particolare perché i capitali disponibili erano investiti nella speculazione piuttosto che nell'economia produttiva, questa offrendo maggior redditività: tra maggio ed ottobre 1927, la produzione industriale s'era abbassata del 7%.
Tuttavia i banchieri centrali furono la causa della gravità della crisi. Negli anni 1926-1928, i tassi d'interesse ufficiali, quelli della FED - e ciò in accordo con la Banca d'Inghilterra diretta da Sir Montagu Norman stabilitosi allora a Washington, -erano rimasti bassi ed i prestiti concessi in abbondanza, coll'approvazione del governo, questo mentre l'economia cominciava ad accelerare in maniera forsennata e le dichiarazioni governative incoraggiavano la popolazione a piazzare i propri risparmi nel sistema borsistico. Era divenuto certamente necessario rallentare la corsa ma i banchieri centrali fecero in modo che ciò non li svantaggiasse. Ed è così che a partire dalla primavera del 1929, la FED aumentò rapidamente i suoi tassi, che già aveva iniziato a far risalire lentamente dal 1928.
Ciò non poteva avere che l'effetto di strangolare senza pietà un'economia surriscaldata. Tuttavia questa politica fu lanciata in maniera discreta, mentre le banche, parti essenziali della FED, avevano delle liste preferenziali di persone informate in anticipo delle manovre speculative e tra le quali figuravano banchieri, amici, industriali, parlamentari, dirigenti, società straniere etc etc.
Pratiche correnti, si obietterà: ma che mostrano chiaramente che la politica economica di certuni non corrisponde a quella di tutti e, soprattutto, all'interesse nazionale dei popoli.
Al di fuori delle cause puramente tecniche, vi sono cause di natura particolare complicate dall'imprevedibilità degli avvenimenti che neppure i cervelli meglio organizzati potrebbero gestire.
La crisi del'29, come quella scatenatasi nel 2008, vi trova le sue cause profonde. Così, tra altri fattori, è facile interrogarsi sulla riunione dei dirigenti della FED del 20 aprile 1929, il cui contenuto non è stato reso pubblico, nel momento in cui a partire da essa si mette in marcia la politica di penuria monetaria sul mercato a breve termine di New York e nello stesso momento in cui gli "iniziati" convertono le loro azioni sopravvalutate in titoli di Stato all'evidente scopo di tutelarsi.
Nell'agosto del 1929 il tasso era già salito al 6%. Ma quando il tasso d'interesse passa brutalmente al 20% si arriva alla catastrofe: è ciò che si produsse in occasione del celebre "giovedì nero" del 24 ottobre 1929 .
Nel suo numero del 25 maggio 1929 il London Statist aveva scritto. "Negli Stati Uniti, le autorità bancarie vogliono visibilmente un panico economico per bloccare la speculazione". Di fatto, i dirigenti finanziari degli Usa e dei circoli economici mondiali agirono senza remore per porre un freno ad un gioco pericoloso, al tempo stesso però preservando i propri interessi. D'altronde la "grande depressione" fu l'occasione di rafforzare la concentrazione economica come fece JP Morgan Company, costituendo un immenso trust alimentare, Standard Brands (poi divenuto Nabisco Brands).
La crisi degli anni trenta si concluse con la seconda guerra mondiale che fu l'occasione per la finanza anglosassone di rafforzare la propria dominazione sul mondo e in particolare sull'Europa occidentale, grazie anche al successivo aiuto della guerra fredda.

GLI ULTIMI DECENNI

Veniamo agli ultimi decenni. Lo sviluppo delle relazioni economiche internazionali legate all'industrializzazione degli Stati ch'erano rimasti fino ad allora al di fuori della rivoluzione industriale ha favorito l'estensione di reti finanziarie internazionali accentrate su New York e Londra, le quali servono di supporto all'espansione del progetto mondialista che mira ad abolire le frontiere facendo saltare il "catenaccio della nazione". come l'aveva definito il barone di Rothschild nel 1971, e facendo decadere il mondo bianco attraverso il meticciato e la multiculturalità.
Già dagli anni settanta, lo spossessamento degli Stati della loro sovranità monetaria, messo in moto negli Stati Uniti prima del 1914, è entrato in una nuova fase. Rinunciando alla loro sovranità monetaria, gli Stati d'Europa hanno deciso di non rifinanziarsi più per loro conto, come facevano per una gran parte fino ad allora, ma di ricorrere al prestito sui mercati finanziari, così indebitandosi al prezzo del pagamento di tassi d'interesse che accumulano così via via un debito sempre più considerevole. Da qualche tempo, però tardivamente, l'opinione pubblica comincia a scoprire per esempio la legge Giscard-Pompidou del 1973 che instaura questo sistema di incatenamento della Francia. ma alla stessa epoca delle simili leggi furono adottate negli altri stati europei ed esse sono state iscritte nel marmo dei trattati dell'Unione Europea, da una parte con l'articolo 104 del trattato di Maastricht, dall'altra coll'art.123 del trattato di Lisbona, alias "mini-trattato"- voluto da Sarkozy per fare accettare le principali disposizioni del Trattato dell'Unione Europea, bocciato nel 2005 dai francesi e dagli olandesi.
Ricordiamo così che sui circa 1600 miliardi d'euro di debiti della Francia, circa 1400 sono imputabili al servizio del debito accumulato dal 1974. Il tasso d'indebitamento della maggior parte degli stati europei passa l'80% del PIL, e oltre il 100% come l'Italia. Anche la virtuosa Germania vede il proprio tasso d'indebitamento pubblico raggiungere l'83% e le sue finanze sono meno solide di quel che appare. Detto altrimenti, tutti gli stati, compresi gli Stati Uniti, sono in qualche modo presi in trappola e la loro sorte dipende dai "mercati", ossia da alcuni circoli finanziari pronti a scatenare una crisi maggiore o magari attendendola.
Congiuntamente, questa trappola comporta un'altra partita: creare una crescita artificiale dei mercati fondata sul danaro fittizio per un montante che raggiunge oltre i 50.000 miliardi di titoli virtuali o di valore assai dubbio, mentre l'economia reale ristagna (precisiamo che solo il 3% della massa monetaria mondiale contabilizzata ha relazione con l'economia reale, ossia produttiva). Una crisi scatenata in queste condizioni permette a quelli che la producono di riscattare imprese a bassi prezzi, d'accelerare le fusioni bancarie, di rinforzare i monopoli transnazionali, spogliando stati e popoli.

LA CRISI DEL 2008

La crisi finanziaria dell'autunno del 2008 sopraggiunge dopo lo sviluppo lussureggiante di quella che si chiama "industria finanziaria" e degli speculatori d'ogni risma, le tecniche finanziarie avendo fatto oggetto di grandi innovazioni (come i mercati a termine e la titolarizzazione), con l'aiuto dell'informatica; lo sviluppo del credito ipotecario s'aggiunge alla dose. Questa crisi era già prevedibile dal 2007 per quelli che si davano pena d'essere attenti alle discrete dichiarazioni pubblicate nelle riviste finanziarie. Ritroviamo in qualche maniera il processo interno al mondo finanziario descritto precedentemente a proposito della crisi del 1929.
Tutto si svolge come se l'attuale crisi avesse per obiettivo di condurre a risipiscenza gli stati affinché si sottomettano in toto al potere della finanza mondializzata ed apatride che controlla i popoli mediante segni monetari che non hanno altra consistenza che qualche riga di scrittura su quaderni o computer ! Così, la crisi dell'euro, moneta per sua natura fragile data la disparità economica degli stati che vi hanno aderito, è stata accelerata ingigantendo la questione greca. La federalizzazione dell'Europa è proposta come la soluzione; ciò che corrisponde a quanto scriveva un secolo fa Saint Yves d'Alveydre, vicino ai mondialisti dell'epoca, ossia un programma d'accettazione dei progetti politici attraverso l'economia.
A riprova di questa "crisi voluta" citiamo Davidson Rockfeller, uno dei mentori del mondialismo, che dichiarava nel 2006: "Noi arriviamo verso l'emergenza d'una trasformazione globale. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la ed il popolo accetterà il nuovo ordine mondiale".
Ma, più ancora, la politica di copertura dei debiti attualmente condotta, sotto la guardia del FMI, a colpi di ristrutturazioni e liberoscambismo, per tentare di garantire alle banche il pagamento dei crediti accumulati e meglio asservire gli stati, conduce all'impoverimento delle classi medie e alla costituzione d'una società polarizzata tra ricchi e poveri, ad un punto di massima fragilità e riportando i nostri popoli ad un'epoca di sottosviluppo.
A quest'aspetto s'aggiungono dei fattori geopolitici. Vediamo il caso di Saddam Hussein, attaccato certamente per impadronirsi del petrolio irakeno (dalla crisi petrolifera del 1973 organizzata da Kissinger e l'OPEC, il petrolio era divenuto la garanzia del dollaro in quanto moneta di riserva internazionale) ma anche per castigare un regime che si voleva sottrarre alle forche caudine del mondialismo; lo stesso vale per Gheddafi, attaccato, poi assassinato per la semplice ragione che voleva ridurre la rendita delle società petrolifere che operavano in LIbia e instituire un sistema di finanziamento dell'Africa che sfuggisse all'influenza dei banchieri di Wall Street e della City. La situazione iraniana può analizzarsi nella medesima maniera. Aggiungiamo la questione geopolitica centrale della difesa dello Stato di Israele e avremo un quadro assai completo della situazione presente, alla luce della lunga durata storica sinteticamente qui presentata sotto la luce degl'interessi finanziari.
Ciò precisato, la storia non è già stata scritta e il progetto mondialista, ultimo sopravvissuto delle grandi ideologie del ventesimo secolo, non è per nulla assicurato nella sua riuscita.
Fondandosi sull'inganno, sulla speculazione e l'assenza di morale naturale, ossia di conformità alle leggi universali che regolano il mondo e la vita delle società, il costruttivismo mondialista è più fragile di ciò che si pensi, tanto più che il mondo su cui s'appoggia, ossia il "mondo bianco" è in decadimento spirituale e in declino economico.
I popoli debbono ritrovare le loro libertà confiscate dalla moneta fittizia e un debito illegittimo, poiché non spetta alle popolazioni di pagare le mene dei bankster e dei politici mediocri e stipendiati.
Sicuramente tante difficoltà e situazioni impreviste ci attendono. ma l'avvenire è più che mai aperto e sarà ciò che noi sapremo farne.

martedì 6 dicembre 2011

QUANDO I GANGSTER SI METTONO A DARE LEZIONI

Ambienti filo atlantici hanno iniziato ad accusare le autorità russe di brogli nella conta dei voti; e subito la Clinton ci si è buttata a pesce.
Non gli è andata giù che Putin e la sua linea politica abbiano vinto le elezioni legislative, non in maniera trionfale come nella precedente occasione ma comunque in modo netto; la metà dei voti, questo significa, al di là delle patetiche minimizzazioni dei lacchè della stampa "occidentale"; al 50% dei consensi di Russia Unita va aggiunto un altro dieci per cento degli alleati di Russia Giusta; il 10% dei nazionalisti di Zirinowski ed il 20% dei comunisti non camminano certo nella direzione laico-liberale auspicata dagli Usa e dai blogger da loro stipendiati.
Gli è andata male anche stavolta.
E' da settant'anni che gli Stati Uniti vanno cercando nella Russia (fin da quando era ancora sovietica) un partner commerciale privilegiato per costituire, insieme con essa ma da loro diretto, un duopolio mondiale al fine di controllare i mercati del globo.
Sono ben noti i finanziamenti che la rivoluzione sovietica ottenne da banche "diciamo" statunitensi; è meno noto il fatto che l'alleanza di Roosevelt e Stalin, oltre che finalizzata a schiacciare una Germania destinata a diventare forza economica di prim'ordine e che aveva rifiutato i metodi speculativi del commercio internazionale, era quello della nascita di un polo che controllasse il mercato mondiale a 360 gradi.
Roosevelt e la finanza americana ci contavano; gli statunitensi consegnarono a Stalin mezza Europa che le loro forze armate avrebbero potuto riprendersi in un batter di ciglia; non lo fecero perchè più importante della libertà dei popoli dell'est era coccolare il tagliagole georgiano che contavano di portare dalla loro parte: quella che intendeva impossessarsi del controllo globale dei mercati.
Peccato però che Stalin odiasse i capitalisti non meno di quanto aveva odiato i tedeschi e il nazionalsocialismo; e non se ne fece nulla.
Liquefatto il comunismo l'occasione si ripresenta e, paradossi della storia, gli Usa riescono nell'intento col nemico del giorno prima là dove avevan mancato in precedenza coll'alleato di una guerra sanguinosa; agganciano così la nuova leadership russa portandola nell'orbita del modello liberale; ma il progetto dura poco perché Putin gliel'affossa riservando allo Stato il controllo della sua economia.
***
Nessuno è in grado di stabilire se in Russia qualcuno abbia barato nel conteggio dei voti; allo stesso modo in cui non possiamo giurare sul fatto che, nel 2004, il governatore della Florida, Jeb Bush, abbia o no manovrato per far risultare vincente nel suo stato, in maniera poi decisiva, il fratello demente e beone.
Siamo però in grado di affermare con assoluta sicurezza che gli Stati Uniti, da oltre cento anni, si comportano da gangster sul piano sociale, militare e internazionale; è assodato che per costituirsi come nazione ricorsero al massacro sistematico delle popolazioni indiane e acquistarono uomini di pelle scura strappati alle loro terre africane per farne schiavi.
Possiamo affermare con certezza che furono gli Stati Uniti, non la Russia sovietica, a praticare il massacro indiscriminato delle popolazioni tedesche e giapponesi (ma che causarono lutti tremendi anche a città italiane e francesi) con quello che Piero Buscaroli chiamò "l'olocausto dell'aria"; sicuramente erano anglo-nordamericani i gangster volanti che sparavano nelle campagne italiane uccidendo inermi contadini o pacifici ciclisti in un osceno e gratuito tiro al bersaglio; erano anglo-nordamericani i cacciabombardieri i cui piloti avevano scommesso su chi riusciva a buttar giù le due torri di Bologna; le mancarono ma rasero al suolo il vicinissimo Palazzo della Mercanzia; fuor di dubbio che fossero anglo-nordamericane le camionette militari che in Italia, per tutto il periodo dell'occupazione, travolsero, uccidendole e ferendole, migliaia di persone per la guida assassina dei loro autisti bambinoni perennemente ubriachi e ipervitaminizzati (sessant'anni prima della strage del Cermis) in una carneficina passata sotto silenzio e denunciata all'epoca da pochi (tra cui l'indimenticato Giovannino Guareschi nelle colonne del "Candido"); era sicuramente nordamericano il napalm gettato a tonnellate sulle foreste e sui villaggi vietnamiti; sono nordamericani i dollari e le armi fornite a Israele e che servono al massacro sistematico dei palestinesi.
Prima di ficcare il naso negli affari altrui ci spieghino chi ammazzò J.F.Kennedy, l'unico presidente cattolico e non massone nella storia degli Usa; smettendola di gabellarci il rapporto Warren dove si afferma che a sparare da due direzioni opposte fu lo stesso uomo e lo stesso fucile: una cosa del genere non sarebbe capace di farla neppure Rambo.
E si potrebbe continuare per altre mille pagine.