giovedì 17 marzo 2011

ITALIA 1861-2011. COMPLEANNO O FUNERALE?

E' piuttosto zuccherosa la minestrina che ci hanno servito in questi giorni; come un melenso e precotto cenone di capodanno, quell'immancabile appuntamento dove il divertimento, più che garantito è obbligatorio, così è divenuto quasi un “must” proclamarsi fieri e gonfiare il petto d'orgoglio patrio in questo centocinquantesimo anniversario dello stato italiano.
Lasciando da parte tutte le pur legittime critiche di chi rammenta il peso degl'interessi stranieri nella costruzione della nostra unità, l'appoggio della massoneria, le losche imprese dell'eroe nazionale, la rapina perpetrata ai danni delle casse del sud, la sostanziale tiepidezza delle popolazioni che accettarono l'unità senza peraltro avervi contribuito, ciò che si va in giro domandando è se esista oggi in Italia un comune senso d'appartenenza che possa essere recuperato e proiettato verso il domani in una prospettiva di rinascita della nazione.
E' ciò che si afferma con perentoria sicurezza nell'editoriale odierno del Corriere della Sera, significativamente intitolato “orgoglio italiano” dove, citandosi i casi di Francia e Stati Uniti, già un tempo teatri di sanguinose guerre civili, di Spagna e Gran Bretagna, ancora scosse da cruenti tremiti separatisti, s'arriva alla confortante conclusione di come anche violenti contrasti all'interno delle nazioni non impediscano la possibilità di coesione e riconoscimento di valori condivisi.
A parte il fatto che in una Europa squassata da secoli di guerre religiose, civili, ideologiche gli unici “valori” che guidano una nazione sono quelli di chi l'ha spuntata e la favoletta della “condivisione” è un ingannevole ritornello preparato dai furbi per gli sciocchi, il paragone coll'Italia è comunque improponibile.
Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno in comune una vocazione imperiale (a modo suo anche la Spagna) o imperialista che ha determinato in esse una visione più ampia e comunque più complessa del loro divenire storico; Francia e Stati Uniti, in tempi e modi diversi, ma con una stessa impronta giacobina, hanno inteso esportare il modello che s'era affermato al loro interno, la prima cercando d'impiantare oltre confine il modello rivoluzionario/egualitario, sia nell'epoca napoleonica sia nelle successive imprese coloniali e i secondi inondando di “democrazia” e di prodotti usciti dalle loro fabbriche, il tutto garantito da governi-fantoccio, i territori che interessavano la loro strategia geopolitica. Più cinici ma senz'altro meno ipocriti gl'inglesi che, senza tanti contorcimenti ideologici, occupavano e feudalizzavano i dominions, rendendoli tributari ed associandoli al proprio destino.
La vocazione imperiale dà in ogni caso il senso d'una missione che va al di là dei secolari e mai spenti regolamenti di conti interni, sopisce l'incubo dei fantasmi familiari, dando sfogo ad energie e vitalità che altrimenti cozzerebbero l'una contro l'altre ed è un ottimo mezzo per garantirsi una discreta scorta d'indipendenza anche nei tempi di vacche magre.
Lo dimostra la Francia che, lacerata da una guerra civile non meno cruenta di quella italiana e da un dopoguerra ancor più colmo di vendette, grazie al fiuto di De Gaulle seppe sottrarsi al potere anglosassone già divenuto il centro politico e strategico del mondo europeo-occidentale mantenendosi potenza e garantendosi autonomi spazi di agibilità.
L'Italia, dopo gl'illusori fasti del fascismo e il sogno d'essere divenuta nazione di rilievo mondiale, rinasceva però coll'operosità, col senso del dovere e coll'iniziativa imprenditoriale; il nostro boom economico era la nostra piccola ma significativa ri-conquista del mondo e dimostrava che il nostro paese era ancora vivo.
Carenti in bellicosità, determinazione politica e volontà di dominio, gl'italiani – come i giapponesi a cui però quelle doti erano state espiantate colle tenaglie roventi – convertirono l'ancor fresca disciplina civica e militare in forza economica ed imprenditoriale.
Ma l'onda lunga per noi è già terminata ed il senso d'una patria condivisa, col suo bagaglio di civismo e di educazione collettiva che la grande guerra e i vent'anni successivi avevano iniettato nel sangue degl'italiani s'è già esaurito e tutto sta evaporandosi e non c'è bisogno di spiegazioni perché il nulla sta sotto gli occhi di tutti; la maggioranza silenziosa e lavoratrice, rispettosa e corretta di ieri, oggi è minoranza in un paese popolato da furbi, ruffiani, servi e cafoni e dove la misura della serietà la si coglie nel vedere la protesta studentesca capitanata da ventisettenni fuori corso di scienze politiche.
L'educazione a quei princìpi, i soli in grado di guidare una nazione poiché non fondati su basi ideologiche ma spirituali (amore per la patria, rispetto dell'autorità, spirito di sacrificio)non ci sono più, non sono più insegnati né predicati e chi li invoca fa la figura del cretino anzi probabilmente lo è.
Quindi l'Italia del 1861 è già defunta; pensavano di festeggiarne il compleanno mentre se n'è appena celebrato il funerale, alla presenza dei becchini – e di questa onorevole categoria posseggono solo il lugubre aspetto – Bruno Vespa, Pippo Baudo e Giorgio Napolitano, vedettes della serata televisiva che dei riti funebri italioti ha infatti assunto le tipiche grottesche sembianze: applausi scroscianti all'indirizzo del povero estinto, il tutto condito con un gigantesco e democratico karaoke cantato sulle note dell'inno di Mameli, evviva il morto! lunga vita al morto!

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