martedì 23 febbraio 2010

LA CORRUZIONE VIENE DA LONTANO

"A rifar l'Italia bisogna disfare le sètte" (U.Foscolo)

L'intervento dell'ex ministro del governo Berlusconi, Giuseppe Pisanu, vecchio e scaltro democristiano é di quelli da annotare.
Intervistato sul Corriere di oggi trancia un giudizio senza appello: " Sono giorni che vado maturando queste parole...non credo di esagerare se dico che é il Paese ad essere corrotto. C'é la corruzione endemica, denunciata dalla Corte dei Conti; e c'é quella piú strutturata e sfuggente delle grandi organizzazioni criminali...Ogni anno le mafie riversano su tutta l'Italia fiumi di denaro sporco che vengono immessi nell'economia legale con l'attiva collaborazione di pezzi importanbti della societá civile: liberi professionisti, imprenditori, banchieri, funzionari pubblici e uomini politici a ogni livello ".
Per superare questo, sostiene l'ex ministro "é necessario un profondo rinnovamente del ceto politico". Belle parole.
Si potrebbe suggerire a Pisanu, settantatreenne, deputato dal 1972 ed attualmente presidente della Commissione sulla Criminalitá Organizzata , di dare le dimissioni
a mó d'apprezzabile esempio.
Ma il punto che merita vera attenzione, e qualche considerazione, é dove Pisanu sostiene che la corruzione é endemica (endemia: malattia propria d'un paese o d'un popolo ) cioé radicata, diffusa tra gl'italiani.
E' un'accusa molto pesante.
E' vero che esiste nel nostro paese una prassi di costante insofferenza alle regole; accanto ai casi di corruzione e malcostume politico emersi e a quelli ancora impuniti chi puó negare che l'italiano medio cerchi sempre di "farla franca", evadendo le tasse, eludendo i divieti, tentando scorciatoie, rincorrendo sempre la soluzione furba o la raccomandazione che l'aiutino a scalare una posizione anche a scapito del suo prossimo ?
Se questa é la "corruzione endemica" a cui si riferisce Pisanu non possiamo negare che l'accusa ha seri fondamenti di veritá.
"Corruptissima republica, multiplae leges", sentenziava Tacito: il moltiplicarsi delle leggi é sintomo della decadenza e della disobbedienza le quali, appunto, richiedono l'adozione di sempre nuovi provvedimenti per essere combattute od arginate.
La superproduzione legislativa del nostro parlamento ed il numero spropositato di leggi e decreti danno ragione all'equazione tacitiana.
Ma dobbiamo anche chiederci dove questo ricorrente atteggiamento di insofferenza se non di ribellione di fronte all'autoritá - sia essa rappresentata dal codice civile o da quello della strada o dai regolamenti comunali, dal vigile urbano come dallo spazzino, dall'insegnante come dall'ufficiale giudiziario - trovi la propria causa.
Le ragioni sono tante e, se vogliamo, piuttosto scontate: una concausa sicuramente determinante va rinvenuta in quel rivolgimento culturale che fu il sessantotto e che scatenó individualismo, ossessione della libertá e dei diritti, disconoscimento del principio d'autoritá.
All'Italia stracciona ma piena di speranza del dopoguerra era subentrata l'Italia del boom e del benessere pronta ad affrontare, dopo l'emancipazione economica - frutto degli sforzi d'una generazione cresciuta col senso del dovere, col culto del lavoro e col rispetto delle leggi, che il fascismo non la costituzione democratica aveva loro insegnato - suo malgrado anche un'emancipazione intellettuale.
Era forse il prezzo da pagare per passare dalla condizione di paese agricolo a quella di potenza industriale, dal secondo mondo al primo mondo.
Ma in molti paesi, pur ancora tutt'oggi avvelenati dal sessantottismo, sfibrati da un'immigrazione selvaggia e da uno scollamento sociale, con classi politiche asservite a lobby finanziarie e di pensiero antinazionali, nonostante tutto questo, la corruzione non é ancora dilagata e qualche oncia di rispetto per le istituzioni ancora esiste.
L'ondata d'urto del sessantotto, fuor dall'Italia, é stata spesso assorbita da anticorpi antichissimi ed efficaci in nazioni dalle spalle robuste.
La povera Italietta uscita gracile da un Risorgimento scarsamente sentito e che trovó nel fascismo una rigenerazione prima di tutto morale, uscì dal secondo dopoguerra piena di speranze ma priva di difese immunitarie, che la costituzione repubblicana, partorita anche dall'odio comunista, non poteva certo assicurarle.
Ai primi colpi di vento il giovane alberello dalle radici piantate nella terra bagnata
dal sangue di decine di migliaia di morti ammazzati vacillava; si é tante volte parlato della vittoria delle "istituzioni democratiche" contro il terrorismo. Balle, le istituzioni democratiche erano intrise di fiancheggiatori morali della sovversione brigatista, figlia legittimissima della resistenza assassina, tra i magistrati, i giornalisti, i politici, gl'intellettuali, i registi.
Norberto Bobbio, Bernardo Bertolucci, Alberto Bevilacqua, Giorgio Bocca, Pierre Carniti, Furio Colombo, Luigi Comencini, Umberto Eco, Federico Fellini, Ugo Gregoretti, Margherita Hack, Carlo Levi, Primo Levi, Nanni Loy, Paolo Mieli, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Carlo Ripa di Meana, Eugenio Scalfari, per non citare che i piú famosi tra i nomi dei sottoscrittori dell'infame manifesto apparso nel 1970 su "l'Espresso", che indicava il commissario Calabresi quale assassino dell'anarchico Pinelli.
Non erano sciocchi fanciulli assetati d'estremismo verbale; erano giornalisti, scrittori, registi, intellettuali DEL sistema, che operavano NEL sistema democratico, addirittura tra loro v'era il Bobbio, considerato uno dei padri di questa indecente repubblica.
E le brigate rosse persero non perché avessero contro di loro uno stato forte e compatto; semplicemente non potevano vincere, la loro guerra era velleitaria e persa in partenza, sempre che di guerra contro lo Stato si trattasse davvero.
E non é bastato, evidentemente, il rimaneggiamento istituzionale della c.d. seconda repubblica dopo lo scandalo di Tangentopoli per rivedere in Italia una rigenerazione morale, se é vero che nuovi scandali stanno giornalmente emergendo.
L'Italia (anzi il suo territorio ché quella del dopoguerra non é mai nata) é ora apertamente dominata da guerre di bande, alcune legali, alcune illegali e qualcuna anche legalizzata, priva di coesione sociale, priva d'una minima idea comune e condivisa, spezzettata in circoscrizioni chiamate regioni, del tutto prive di radicamento storico, fucine di ruberie e di sperequazioni.
In questo quadro a dir poco desolante, come non definire arrogante la pretesa dello Stato-amministrazione di ottenere obbedienza, rispetto e danaro dai cittadini? Ci troviamo immersi in un fallimento generale: nella sicurezza, nella giustizia, nella sanitá, nei servizi pubblici svenduti agli amici del potere. E governati da un'oligarchia formata da una classe politica e di sottobosco politico-imprenditoriale che amministra male ma vive e prospera alle spalle di tutti.
"A rifar l'Italia bisogna disfare le sètte" predicava il Foscolo nella sua opera politica "Della servitù d'Italia"; l'Italia del dopoguerra é nata dalla vittoria di alcune sètte coalizzate; finito l'interesse comune, regolati i conti coi vinti alla maniera dei gangster, é cominciata - ed é tuttora in corso - la spartizione del potere, dei posti, delle prebende; le varie cricche dell'antifascismo prima e del post-antifascismo dopo - le prime con piú discrezione, le seconde colla cafoneria tipica dei tempi attuali - si sono fatte la casa al mare, hanno sistemato famiglia, amanti ed amici. E come i ratti si sono moltiplicati in sotto-cricche e sotto-sotto-cricche.
"Les peuples qui cessent d'estimer cessent d'obeir" scriveva Rivarol, l'intellettuale dell'antirivoluzione: i popoli che cessano di stimare (i governi) cessano d'ubbidire.
In queste condizioni, come meravigliarsi della disobbedienza, dell'insofferenza, dell'evasione fiscale ? Il "contratto sociale" che legava lo Stato ai cittadini si é rescisso per inadempimento del primo, ed allora perché i secondi dovrebbero rispettarlo ?

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